lunedì 17 agosto 2009

Sono tornato

Dopo mesi di assenza, dovuti ad un misto di malattie (come dice un mio amico medico, non si esce mai indenni dal terzo mondo), lavoro e un briciolo di ferie, torno al caro "vecchio" blog, ripromettendomi una maggior costanza nell'aggiornamento.

Ciao a tutti,

Davide

sabato 23 maggio 2009

The Modi magic

Non molti sanno meglio di me quanto sia difficile trovare un buon titolo per un articolo, breve ma esplicativo ed efficace allo stesso tempo, che riesca a rimanere impresso nella mente del lettore. Di sicuro vi è pienamente riuscito l'autore del titolo apparso in questi giorni, dopo l'inaspettato risultato elettorale nello Stato del Gujarat: "'Modi magic' fails to sweep Gujarat, again" [La 'magia di Modi' non riesce a fare piazza pulita, di nuovo].

Narendra Modi, Chief Minister del Gujarat e indicato come possibile Primo Ministro per il Bharatiya Janata Party, è sicuramente uno dei personaggi più controversi della politica indiana. Sotto la sua guida, il Gujarat o, per mutuare lo slogan dello Stato, il Vibrant Gujarat ha espresso al pieno il suo potenziale economico, giungendo ad un contributo alla produzione industriale della Nazione pari al 16% e diventando la meta preferita per gli investimenti sia nazionali che stranieri. Infrastrutture di prim'ordine, porti ed aeroporti moderni, zone industriali in grado di attrarre investitori da tutto il mondo sono l'impronta che Modi vuole lasciare al suo Stato.

C'è però un "lato oscuro" del governo di Modi, ossia l'intolleranza religiosa: nell'India multietnica e in cui per secoli Hindu, Musulmani, Buddhisti e Cristiani hanno convissuto in pace, il BJP ha lanciato in Gujarat un'offensiva contro le altre religioni, che si è tradotta nei tentativi di instaurare leggi contro la conversione religiosa e nelle violenze contro i musulmani del 2002, sulle quali Modi è stato da più parti accusato di aver condiscendentemente chiuso un occhio per permettere la creazione di un clima di terrore.

Nelle ultime elezioni politiche, sembrava che il BJP dovesse davvero fare piazza pulita dei ventisei seggi dello Stato del Gujarat al Lok Sabha, ma la risicata vittoria 15 a 11 dimostra che, nonostante i grandi successi economici e le numerose iniziative per la modernizzazione del Gujarat, gli elettori indiani non sono disposti a chiudere anch'essi un occhio sulla questione religiosa. Davvero la ricetta di Modi, pur avendo qualche ingrediente "magico", ha fallito.

domenica 17 maggio 2009

Manmohan atto II

Con la tornata del 13 maggio si sono concluse le elezioni in India e, grazie al sistema di votazione elettronico, già la mattina del 17 si sono avuti i risultati degli scrutini, che hanno visto una netta riconferma della United Progressive Alliance, la coalizione guidata dal Congress Party di Manmohan Singh e Sonia Gandhi. Il conferimento di un secondo mandato consecutivo allo stesso candidato premier, evento estremamente raro nella storia della democrazia indiana, va ovviamente letto come segno di apprezzamento per il lavoro sin qua svolto, ma anche come la conseguenza dell'incapacità da parte della coalizione avversa, la National Democratic Alliance, di presentare un candidato in grado di conquistare il consenso della popolazione.

Come testimonia la seduta di lunedì 18 maggio della Bombay Stock Exchange, chiusa per eccesso di rialzo, positive sono state le reazioni da parte del mondo degli affari indiano, a cominciare da Vijay Mallya, il patron della Kingfisher indicato a volte come "Mr. Good Times" e a volte come il Richard Branson indiano, che auspica una nuova stagione di riforme per liberalizzare ulteriormente il mercato. Non più ostaggio dei partiti dell'estrema sinistra refrattari alle riforme (mi ricorda qualcuno) grazie ad una schiacciante maggioranza in Parlamento, la UPA difatti può terminare la sua agenda politica e far compiere passi da gigante al processo di liberalizzazione cominciato dallo stesso Manmohan Singh nel 1991, quando era Ministro delle Finanze del Governo di Narasimha Rao.

I numeri, come si suol dire, ci sono tutti e, come ormai tradizione in tutte le democrazie, i primi cento giorni di governo saranno indispensabili per valutare quale sarà l'effettiva portata di tale vittoria. "Fare l'indiano", fatti salvi i tanti impegni di lavoro dell'autore, sarà qua per raccontarveli. Stay tuned.

domenica 3 maggio 2009

Il matrimonio al tempo di Internet

Per una società basata sulla famiglia e su una intricata tela di rapporti sociali quale quella indiana, il matrimonio rappresenta una vera e propria ossessione. Basato su un accordo tra famiglie, dettato da ragioni di convenienza economica e di prestigio sociale, in cui i futuri sposi raramente hanno vocein capitolo, il matrimonio indiano obbedisce a regole che noi occidentali non riusciamo a cogliere e sovente bolliamo come barbare. Le leggi del varna proibiscono nella maniera più assoluta il matrimonio tra appartenenti a caste diverse, pertanto l'organizzazione di un matrimonio parte dalla spasmodica ricerca di un candidato o candidata ideale all'interno della propria casta, quando non addirittura della propria sottocasta.

Se nell'India rurale, oggi come secoli fa, in tale selezione hanno un ruolo fondamentale figure come astrologi, sacerdoti, intermediari ed usurai (questi ultimi necessari sovente ad assicurare alla famiglia della sposa la possibilità di soddisfare le esorbitanti richieste di dote dei futuri consuoceri), nelle megalopoli stanno sempre più assumendo importanza i portali internet per la ricerca del futuro sposo o della futura sposa, come BharatMatrimony.com o Shaadi.com. In un paese dove si contano circa 80 milioni di utenze internet, tali siti dispongono di decine di milioni di profili, creati non solo online ma anche tramite il supporto di centri in franchising, aperti per offrire supporto ai non avvezzi al computer. Aperti per la maggior parte verso la fine degli anni '90, questi portali hanno nel corso di pochi anni sviluppato un giro d'affari da 600 milioni di rupie, una cifra da capogiro.

Ma cosa aspetta chi si collega ad uno di questi siti? L'esperimento con BharatMatrimony.com mette in risalto tutti i controversi aspetti del matrimonio indiano: nella schermata iniziale si può accedere alla funzione di quick search, che giustamente si deve basare unicamente sugli aspetti fondamentali, in questo caso sesso, fascia d'età, religione, casta e presenza di fotografia. Per l'esperimento, suppongo di voler cercare una moglie di età compresa tra 22 e 26, di religione hindu e casta braminica - saraswat e la ricerca produce 92 risultati. La stragrande maggioranza delle presentazioni delle potenziali future mogli è ovviamente in terza persona, affidata o ad un genitore o ad un fratello, o comunque a qualcuno che avrà l'autorità di negoziare i termini dell'accordo matrimoniale. Aprire un profilo significa trovarsi di fronte ad un identikit completo, in cui la disposizione delle schede spiega meglio di mille parole quali siano i criteri con cui una moglie viene selezionata: la scheda socio-religious background difatti occupa il secondo posto, subito dopo le informazioni base, mentre hobbies and interests, che a noi sembrerebbe fondamentale, è relegata verso il fondo, dopo educational and professional information e family details.

Usanze, superstizioni e regole vecchie di millenni hanno trovato nuova linfa tramite lo strumento più moderno, Internet, in quella che ad un occhio occidentale non può non apparire come una contraddizione, ma che in India rappresenta la norma. Nel corso dei millenni, l'India ha infatti sempre assimilato, integrato ed adattato alla propria mentalità le diverse istanze culturali con cui è venuta in contatto, e Internet non rappresenta certo un'eccezione.

martedì 28 aprile 2009

Viaggiare in India: Jodhpur

Jodhpur, l'antica capitale del Marwar, da cui gli eserciti dei Rajput, discendenti mitologici del Sole stesso, mossero guerra al potente Impero Moghul, riuscendo a mantenere la propria fiera indipendenza. Jodhpur, la fiabesca città blu dominata da secoli dall'imponente Mehrangarh, che nemmeno i più ingegnosi assedi riuscirono a conquistare. Jodhpur, da cui generazioni di intraprendenti mercanti Marwari sfidarono il deserto del Thar in nome della ricchezza. Peccato che nessuna di queste antiche e gloriose immagini, complice una poco felice ubicazione, giunga alla mente arrivando alla stazione degli autobus: i palazzi non sono blu, il forte non si riesce a scorgere e l'unico assedio a cui si assiste è quello dei guidatori di autorickshaw che cercano di accaparrarsi i turisti.

Bastano però pochi minuti di
autorickshaw perché davanti agli occhi si presenti uno scenario fiabesco: la città vecchia sembra un lago di indaco e su di essa si staglia in tutta la sua imponenza il grande forte dei Rathore, il Mehrangarh, la cittadella del Sole. Voluto nel 1459 da Rao Jodha, quindicesimo Raja di Rathore e rimaneggiato nel corso dei secoli dai suoi successori, il forte sembra la naturale prosecuzione della collina su cui è posizionato, a circa 125 metri sopra la città. Alla sua conservazione ed a tutte le attività turistiche, culturali e museali provvede una fondazione, la Mehrangarh Museum Trust, presieduta da Gaj Singh II, l'odierno Maharaja di Jodhpur. Il lavoro svolto dal trust è encomiabile: il forte è in un perfetto stato di conservazione, decine di operai sono continuamente al lavoro per preservare i tesori architettonici del forte dall'inclemente clima del Marwar e nessun accorgimento è stato lasciato al caso per rendere la visita al forte piacevole. Una particolare nota di merito va alle audioguide, che normalmente io detesto, in perfetto italiano e ricche di informazioni utili ed approfondimenti.

Scendendo dal Mehrangarh si arriva, attraversando la città vecchia dai muri dipinti di indaco, al Bazaar, dedalo di vicoletti dove centinaia di negozi vendono di tutto, dalle spezie all'elettronica, dalla verdura all'artigianato in legno. Gli occhi sono rapiti dal trionfo di colori rappresentato dalle spezie sulle bancarelle, le grida dei mercanti che invitano le persone a comprare nel loro negozio si mischiano in una cacofonia di suoni. Si alza un alito di vento, insufficiente a portare un minimo di sollievo dalla calura ma abbastanza da sollevare il curry e il peperoncino e a depositarlo gentilmente nei miei occhi, con grande ilarità dei passanti. Il clima inclemente rende necessaria una continua idratazione e scopro gusti nuovi, dal
makhania lassi, specialità di Jodhpur a base di yoghurt, zafferano e burro, al frullato di papaya.

Per cercare di sfuggire alla calura, un'altra ottima soluzione è spostarsi a Mandore, ad una decina di chilometri dal centro città, dove una volta sorgeva l'antica capitale dei Rathore, prima della fondazione di Jodhpur. Oggi questa località, divenuta negli anni un sobborgo di Jodhpur, ospita un piacevole parco, dove si può passeggiare tra i cenotafi dei Maharaja ed ammirare la
Hall of Heroes, un galleria di quindici statue dove mito e realtà si incontrano, dove accanto alle raffigurazioni delle divinità trovano spazio quelle dei condottieri Rathore.

Giunge la sera e il dovere mi chiama indietro a Delhi: dopo un lauto pasto e un paio di birre, alle 22.00 salgo su un pullman del Rajasthan State Road Transport Corporation. Alle 05.00 sarò a Jaipur, dopodiché troverò anche un modo di tornare a Delhi. Forse.

martedì 24 marzo 2009

Sta arrivando

Annunciata in pompa magna all'AutoExpo di New Delhi nel gennaio del 2008 e al 78° Salone dell'Auto di Ginevra nel marzo dello stesso anno, dal 1 aprile sarà disponibile sul mercato la Tata Nano, l'auto del popolo, destinata a rivoluzionare il mercato automobilistico indiano, e non solo. Nata come una sfida personale di Ratan Tata, il patron dell'omonimo impero industriale, dopo aver attraversato numerose traversie, legate principalmente alle proteste dei contadini del West Bengal contro l'esproprio delle terre per la costruzione della fabbrica dedicata, che hanno costretto allo spostamento della produzione in Gujarat, la People's Car arriva finalmente nelle showroom di tutta la Nazione. La Nano sarà venduta al prezzo di 100.000 rupie (1.450 Euro circa al cambio odierno), cifra estremamente simbolica della mentalità indiana, tant'è che ad essa viene assegnato un nome specifico nel sistema di computazione, il lakh.

Considerato che una moto costa, al top della gamma, tra le 80.000 e le 120.000 rupie, è naturale immaginare che le orde di motorini che intasano le strade delle metropoli indiane e su cui si viaggia in numero variabile da una a quattro persone verranno presto sostituite da orde di Nano, ma quale sarà l'effettivo impatto? Tralasciando valutazioni personali sulle assai scarse capacità automobilistiche della maggior parte degli indiani, sebbene condivise, vi sono due considerazioni decisamente più oggettive.

La prima è di natura ambientale: è vero che la Nano si attiene alle norme di emissione più avanzate in India, ma è anche vero che lo standard in questione, noto come Bharat Stage III, come si può intuire corrisponde al nostro Euro III. Se le previsioni di vendita di un milione di vetture all'anno si riveleranno azzeccate, si correrà effettivamente il rischio di un notevole impatto sull'inquinamento atmosferico, che nelle metropoli come Kolkata supera ampiamente i livelli di guardia.

La seconda invece riguarda la situazione infrastrutturale del Paese: la rete stradale delle principali metropoli è già totalmente congestionata dall'enorme volume di traffico, dalla generale indisciplinatezza degli automobilisti e da alcune brillanti soluzioni, quali i totalmente inutili posti di blocco della polizia, curiosamente sempre posizionati sulle strade più trafficate e nelle ore di punta. Questa situazione si aggrava ulteriormente con le piogge torrenziali del periodo dei monsoni, da luglio a settembre, con casi eclatanti come la quasi totale paralisi di Mumbai. Aggiungere un milione di veicoli in più all'anno, dei quali la maggior parte sicuramente andrà nelle metropoli e nelle città di "Fascia II", nelle quali è concentrata la maggior parte della ricchezza della Nazione, potrebbe significare il definitivo collasso della rete stradale.

Come tutte le rivoluzioni, anche quella della Nano avrà, due facce: oltre a indubbi benefici ad un mercato, quello dell'auto, che anche in India sta attraversando una fase di stagnazione, bisognerà aspettarsi anche degli svantaggi. Con buona pace di chi, come me, passa nel traffico delle metropoli indiane parte delle sue giornate.

Un consiglio ai tanti che avranno pensato di fare affari tramite un'importazione parallela di Tata Nano in Italia: al momento, l'automobile non rispetta i requisiti di sicurezza stabiliti dalla EuroNCAP, quindi meglio desistere. TATA ha per altro già annunciato che verrà studiata una versione per i mercati europei, sicuramente più costosa ma in linea con i nostri requisiti ambientali e di sicurezza.

domenica 22 marzo 2009

Viaggiare in India: da Delhi a Khajuraho

Atto I - da Delhi a Gwalior

Come tutte le stazioni ferroviarie dell'India, Hazrat Nizamuddin a New Delhi è un crogiolo di umanità dove ricchi e poveri, giovani e vecchi si trovano, accomunati da un viaggio su una delle reti ferroviarie più estese al mondo. Il Gondwana Express naturalmente è in ritardo e non c'è modo migliore di ingannare l'attesa che bere un chai in un chiosco, guardando le centinaia di persone che si accalcano nella stazione. Vedere le classi più basse dei treni mi fa venire i brividi: la mancanza di qualunque forma di prenotazione fa sì che nei vagoni si ammassino persone ben oltre il limite di capienza e solo i più agili e i più fortunati possono approfittare di una delle panchine di legno. Per fortuna la classe 2A in cui mi trovo io una volta salito sul treno è decisamente migliore e, dopo un sonno ristoratore durante il viaggio, raggiungo Gwalior, la prima tappa.

La prima impressione è la stessa di tutte le città dell'India del Nord, ossia di polvere, traffico e caos, ma la vista della fortezza che dall'alto di una collina rocciosa domina la città fa dimenticare tutti gli aspetti negativi.
Come ho già avuto modo di denunciare in un precedente post, il Forte di Gwalior, pur non avendo nulla da invidiare alle più rinomate fortezze del Rajasthan, giace in uno stato di forte incuria, dovuta verosimilmente al fatto che, non essendo una meta molto gettonata da parte dei turisti occidentali, non vi sono particolari interessi nel conservare al meglio l'area. L'altra faccia di questa medaglia è l'estrema cordialità della gente, che non ha ancora piegato la tradizionale ospitalità indiana alle esigenze del business, come testimonia il rifiuto di servire carne di agnello in un ristorante perché vecchia di un giorno.

Nella luce soffusa del tramonto, scendendo dalla rocca verso la città, si incrocia lo sguardo delle statue dei Tirthankar giainisti, la cui aura di seraficità impressa da secoli nella roccia non può non riportare alla mente le parole di Max Mueller: " Se mi venisse chiesto sotto quale cielo l'ingegno umano ha sviluppato alcuni dei suoi doni migliori, ha più profondamente ponderato sui più grandi problemi della vita ed ha trovato delle soluzioni, indicherei l'India".


Atto II - Da Gwalior a Orchha

Il Gondwana Express lentamente si avvia fuori della stazione di Gwalior e percorre le campagne sonnolente del Madhya Pradesh del nord, costeggiando le testimonianze in rovina di quelli che furono potenti Stati, come l'imponente e totalmente negletto palazzo di Datia. Il nome di Jhansi, importante nodo ferroviario e tappa obbligata per raggiungere Khajuraho, riecheggia nelle cronache delle lotte indiane per l'indipendenza: dal suo seicentesco forte infatti la Rani Lakshmibai, figura entrata a pieno titolo nel pantheon di eroi dell'India indipendente, mosse battaglia alle truppe inglesi durante la rivolta del 1857, cadendo nei pressi di Gwalior.

Ad una manciata di chilometri da Jhansi,
in un leggero avvallamento sulle rive del fiume Betwa, si trova Orchha, uno dei gioielli della regione del Bundelkhand. Dalle finestre dell'imponente palazzo si gode una vista magnifica sulla piana, la cui uniformità è intervallata unicamente dalle guglie dei numerosi templi costruiti a partire dal XVI secolo.

Atto III - Da Orchha a Khajuraho

Mancando un qualunque collegamento ferroviario, per raggiungere Khajuraho bisogna per forza affidarsi o ai numerosissimi pullman o ad un taxi privato. Le pessime condizioni della strada non permettono di superare una media dei 30 km/h in pullman o 50 km/h in auto, rendendo incredibilmente lungo un viaggio di circa 180 km. Se a Ranipur e Chhatarpur, tappe obbligate dei pullman sulla NH75, la presenza degli occidentali suscita curiosità ma non particolare stupore, diversa è l'impressione sugli abitanti dei villaggi di Mao e Nowgong, per cui il vedere dei bianchi scendere da una macchina e andare verso un banchetto di succhi di frutta non deve aver dato sensazioni diverse dal vedere degli alieni sbarcare da un disco volante.

Dopo un viaggio che sembra interminabile, si raggiunge finalmente Khajuraho, dove ad un'alta affluenza di turisti corrisponde, quasi logicamente, un gran numero di procacciatori d'affari, che in quasi tutte le lingue del mondo invitano i turisti nelle decine di negozi e alberghetti sparsi per la città. Famosa per i suoi templi decorati con motivi erotici (questa è una definizione molto da guida turistica, io parlerei tranquillamente di pornografici), Patrimonio dell'Umanità, Khajuraho è l'esatto opposto di Gwalior, ben tenuta, curata e oggetto di continui restauri. Anche se l'insistenza di venditori e procacciatori può essere a tratti snervante, rappresenta sicuramente una meta affascinante.

lunedì 23 febbraio 2009

Viaggiare in India: Bhopal e Sanchi

Il nome di Bhopal è associato ad una delle più grandi tragedie industriali della Storia: è passata da pochi minuti la mezzanotte del 2 dicembre 1984 quando, a causa di un guasto agli impianti di contenimento dei prodotti chimici, dalla fabbrica della Union Carbide si riversano sull'assopita città indiana 40 tonnellate di isocianato di metile (MIC), componente essenziale nella fabbricazione dell'insetticida Sevin. Ancor'oggi, a più di ventiquattro anni di distanza, i segni del disastro si fanno sentire, soprattutto nella popolazione ammassata nei quartieri popolari a ridosso dell'area industriale dove aveva sede la Union Carbide.

Arrivando dalla città vecchia, il muro che costeggia la strada è ricoperto di riquadri neri, le cui scritte bianche chiedono giustizia per le vittime del disastro e denunciano la collusione tra Union Carbide, The Dow Chemical Company, l'azienda che rilevò la Union Carbide nel 2001, e il Governo del Madhya Pradesh, reo a detta degli accusatori di non aver agito con sufficiente incisività per contrastare gli effetti venefici delle infiltrazioni di MIC nel terreno e di aver appoggiato gli interessi americani piuttosto che la popolazione. Frotte di ragazzini, in cerca di qualche rupia, circondano il mio autorickshaw mentre mi avvicino all'area industriale, lanciano qualche sassolino ma scappano alla prima occhiataccia, salvo ricomparire dopo pochi minuti per chiedere ancora più insistentemente la carità e lanciare qualche altro sassolino. Tutto si ferma al comparire di un poliziotto, evidentemente deputato al sorvegliamento della fabbrica, che mi informa, con mio profondo disappunto, che l'unico modo per accedere al complesso della Union Carbide è l'ottenimento di un modulo presso un ufficio specifico. A nulla valgono i blandi tentativi di convincere la guardia e mi devo allontanare, non prima di aver buttato un occhio al profilo della fabbrica, che si staglia da dietro gli alberi.

Non resta altro che una passeggiata, perdendosi nell'intricato labirinto di vie che costituiscono il Chowk Bazaar, passando sotto gli imponenti minareti della Taj-ul-Masjid, una delle moschee più grandi di tutta l'India, e percorrendo le vie fino all'Upper Lake, dove cercare ristoro dal caldo, già forte a febbraio, all'ombra di uno dei gazebo sulle rive del lago, aspettando che il sole scenda e ne faccia risplendere la superficie. 

Gradevole come meta per un giorno, Bhopal costituisce soprattutto un'ottima base per esplorare la regione. Gioiello dell'area è Sanchi, a circa sessanta chilometri, vero capolavoro dell'arte e dell'architettura buddhista. Non stupisce che il grande imperatore Ashoka, convertitosi al buddhismo, avesse scelto proprio Sanchi per fondare il grande complesso monastico: ancora oggi il sito, immerso nella quiete della campagna del Madhya Pradesh, trasmette una sensazione di pace, interrotta unicamente dal lontano fischiare di un treno o dallo schiamazzare di qualche visitatore poco rispettoso. Esperienza unica è trovarsi a Sanchi al tramonto, quando ormai la maggior parte delle orde di scolaresche e di gruppi turistici ha abbandonato l'area e, nel silenzio quasi più assoluto, la luce morente del giorno dipinge di tonalità rosacee gli stupa che, da più di duemila anni, testimoniano la religiosità e il gusto dei regnanti indiani.

giovedì 19 febbraio 2009

L'ospite è Dio

Viaggiando per l'India, soprattutto nelle località meno battute dal turismo internazionale, capita sovente di imbattersi in monumenti di grandiosa bellezza, ma purtroppo lasciati nella quasi completa incuria e alla mercé dei vandali. 

Ne è un esempio calzante la maestosa fortezza di Gwalior, nello Stato del Madhya Pradesh, pressoché totalmente fuori da qualunque tour organizzato e non, dove gli edifici che una volta ospitavano la fastosa corte degli Scindia sono ridotti ormai in uno stato che ricorda decisamente le periferie delle nostre città.

Può poi capitare di essere oggetto di raggiri, schernimento e anche di un sasso lanciato da un ragazzino dotato di scarsa mira e di ancor minore educazione in una via di Bhopal. Chi rischia di più in assoluto sono le ragazze occidentali, di cui i ragazzi indiani hanno sovente un'immagine distorta, complice la trasmissione da parte delle emittenti locali di soap opera come "Beautiful", che sicuramente non annoverano modelli di virtù tra i protagonisti e che vengono prese, specie nell'India delle piccole città, come metro di giudizio su tutto l'Occidente, come ci ricorda Pankaj Mishra nel divertente libro "Pollo al burro a Ludhiana".

Per combattere questi fenomeni di malcostume, che rischiano di ledere l'immagine dell'India come meta accogliente per i turisti, il Ministero del Turismo ha recentemente lanciato una lodevole iniziativa di sensibilizzazione sul tema: Atithi Devo Bhavah. Sotto l'aspetto concettuale, la campagna pubblicitaria appare molto azzeccata, grazie ad una sapiente miscela di tradizione, rappresentata dal nome stesso dell'iniziativa, un antico detto sanscrito traducibile letteralmente come "l'Ospite è Dio [e come un Dio va trattato]", e di modernità, grazie alla scelta di un attore in voga quale Aamir Khan come testimonial.

Non resta che augurarsi che il messaggio venga recepito.

mercoledì 18 febbraio 2009

Una vita Tata

In Italia siamo abituati a considerare Tata unicamente come un produttore di automobili, non rendendoci conto delle effettive dimensioni del gruppo industriale fondato nel 1868 da Jamshetji Tata, discendente di una famiglia di sacerdoti Parsi del Gujarat. Quello che cominciò sul finire del XIX Secolo come un piccolo stabilimento tessile per la lavorazione del cotone a Nagpur divenne nel corso degli anni un'immenso impero economico, capace di avere interessi in molti ambiti della vita del consumatore indiano, come Vijay, il protagonista di questo breve racconto.
Il sole comincia a penetrare tra le tende e Vijay si sveglia. Sono le sette di una mattina come tante altre a Mumbai e, per vederci meglio, Vijay accende la luce grazie all'energia fornita dalla Tata Power. In cucina, la moglie Meenu sta facendo bollire la miscela di acqua e latte, dove poi metterà qualche busta di Tata Tea, e preparando le parantha, dosando sapientemente farina, spezie e il sale Tata. Vijay finisce di prepararsi, si infila l'orologio Titan, prodotto dalla Tata, e si reca in sala per la colazione e per guardare i notiziari, grazie al nuovo decoder satellitare Tata Sky. Sta finendo la sua colazione quando suona il suo cellulare, per il quale ha scelto un abbonamento Tata Indicom; Vijay sta invecchiando e per vedere il numero che lo sta chiamando deve inforcare gli occhiali Titan Eye: è Malhotra, un suo collega, che vuole comunicargli l'anticipazione della riunione prevista per le ore 15.00 alle 14.30. Poco male, risponde Vijay quasi meccanicamente, mentre arrivano finalmente a tavola suo figlio Amit, 27 anni, una laurea in informatica ed un buon posto alla Tata Consultancy, sua figlia Neeta, più piccola, in vacanza dai genitori per una pausa nelle lezioni all'Indian Insitute of Science di Bangalore, creato per volontà di Jamshetji Tata. Vijay guarda la sua famiglia riunita ed è contento, pensa di aver fatto un buon lavoro... a proposito di lavoro, se non si muove rischia di arrivare tardi e il traffico di Mumbai è spietato. Saluta la sua famiglia, si infila la giacca e scende verso la sua macchina, una Tata Indica rossa. Mentre sale in macchina pensa di andare a trovare un giorno l'altro suo nipote, Prakash, che lavora in un hotel della catena Taj Hotels a Jaipur.
La strada è già affollata, ci metterà almeno un'ora ad essere al suo ufficio alla Tata Steel. Poco male, si ripete Vijay, ho sempre la mia autoradio Sony a tenermi compagnia.
Nota di redazione: avrei potuto andare ancora avanti, aggiungere altri dettagli, ma mi sembra che questo racconto, così com'è, già dia una forte idea della penetrazione dell'impero Tata nella vita di tutti gli indiani.

lunedì 16 febbraio 2009

Google for PM

Le elezioni parlamentari in India si fanno sempre più vicine e, come è logico aspettarsi, è cominciato il bombardamento mediatico che contraddistingue qualunque democrazia durante le campagne elettorali. Singolare e senza dubbio inaspettata la scelta del Bharatiya Janata Party, che deve aver raggiunto un particolare accordo con Google per l'utilizzo di AdSense, dal momento che qualunque sito internet soddisfi semplicemente tre requisiti, ossia parlare di India, avere degli spazi Google AdSense ed essere raggiunto tramite un ISP indiano, è letteralmente inondato da annunci inneggianti a Lal Krishna Advani, candidato premier del BJP e della coalizione da esso guidata, la National Democratic Alliance.

Anche questo blog, se raggiunto tramite un ISP indiano, non sfugge a questa logica, a dimostrazione della viralità della campagna organizzata dai sostenitori dell'ottantunenne ex Ministro degli Interni al grido di "Advani for PM
". I link rimandano al sito internet del candidato di destra, a cui bisogna riconoscere una cura fuori del comune standard dei siti istituzionali indiani, decisamente studiato per attrarre il maggior pubblico possibile. Risulta evidente come anche un partito conservatore come il BJP, espressione della destra nazionalista indiana, abbia capito la fondamentale importanza di Internet per convogliare un messaggio politico ai giovani, che, come ho già avuto modo di ricordare in un precedente post, rappresentano un bacino elettorale di primaria importanza nel contesto indiano.

Non potendo, a differenza del Congress Party, proporre candidati giovani e al contempo credibili, ecco che la destra indiana si affida ad Internet ed ai nuovi media, sperando che criteri comunicativi simili a quelli che hanno portato alla Casa Bianca un quarantasettenne afroamericano possano riportare sulla cresta dell'onda uno dei politici più anziani dell'India.

venerdì 13 febbraio 2009

Abbaiare all'albero sbagliato

Evidentemente l'entusiasmo che ha attraversato tutto il mondo con l'avvento alla Casa Bianca di Barack Obama non ha colpito le alte sfere della politica indiana, per lo meno sotto uno degli aspetti più spinosi: la questione del Kashmir. Come già il precedente Presidente democratico, Bill Clinton, che nel 2000, in occasione di una visita nell'Asia del Sud, aveva definito il Kashmir come "il posto più pericoloso al mondo", anche Obama ha indicato la mai risolta disputa territoriale tra India e Pakistan quale uno dei punti focali per raggiungere la stabilità nell'intera regione.

Nei giorni scorsi si è assistito a quello che il Washington Post ha definito come un diplomatic coup, un "golpe diplomatico", ossia la cancellazione dietro pressioni indiane della questione del Kashmir dall'agenda di Richard "Bulldozer" Holbrooke, l'inviato speciale della nuova amministrazione USA in Pakistan e Afghanistan, già artefice degli accordi di Dayton che posero fine alla guerra in Bosnia-Erzegovina. Certi ambienti indiani non hanno decisamente gradito quella che ai loro occhi appare come un'ingerenza USA su questioni prettamente di politica interna, come ha rimarcato il National Security Adviser M. K. Narayanan in un'intervista concessa al periodico Outlook India, a cui si deve l'espressione che dà il titolo a questo post. Secondo quanto stabilito dallo Shimla Agreement del 1972, firmato l'anno successivo alla guerra che determinò l'indipendenza del Bangladesh e la sconfitta del Pakistan, le due Nazioni sarebbero tenute infatti a risolvere unicamente tra di loro le controversie territoriali, senza interventi esterni. Le obiezioni alla condotta indiana sulla questione, basata su un documento che per prima violò nel 1984 con l'occupazione del ghiacciaio del Siachen, approfittando di una definizione approssimativa dei confini nello Shimla Agreement, sono molte, soprattutto dal Pakistan, che ha sempre appoggiato un intervento mediatorio USA nella questione. L'India pare però su questo punto irremovibile: già le iniziative di Bill Clinton nel 2000 suscitarono eguali reazioni dalla "nomenklatura" indiana.

La vera paura dell'India potrebbe risiedere nella possibilità che una mediazione USA possa riportare in auge quanto stabilito nella Risoluzione n. 47 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (pdf), per cui il destino del Kashmir avrebbe dovuto essere deciso da un referendum, con cui la popolazione avrebbe potuto scegliere tra India, Pakistan o, come terza opzione, la creazione di un Kashmir indipendente. L'odierno Stato indiano del Jammu & Kashmir, in cui il 66% della popolazione professa l'Islam, si compone di tre distinte realtà territoriali: il Kashmir, con una popolazione al 97% musulmana; il Jammu a maggioranza Hindu (65%); il Ladakh, dove predominano con il 46% circa ciascuna le confessioni musulmana e buddista. Non è forse troppo azzardato ipotizzare che qualunque modalità di voto, statale o territoriale, significherebbe una sconfitta per l'India nel Kashmir, che nella migliore delle ipotesi potrebbe mantenere il controllo sul Jammu ed ottenere una seppur risicata vittoria in Ladakh, sebbene le ultime elezioni tenutesi alla fine del 2008 abbiano visto la vittoria del Jammu & Kashmir National Conference, partito dichiaratamente pro-indiano e alleato dell'Indian National Congress.

A ripercorrere la travagliata storia del Kashmir dal 1947 ad oggi, una mediazione internazionale appare come l'unica via percorribile per una soluzione di un conflitto che ha già causato migliaia di morti e portato le due Nazioni sull'orlo di una guerra nucleare, ma il dietro-front della diplomazia USA sul tema dimostra come ormai non si possa più non tenere conto, sullo scacchiere internazionale, dell'India.

Avviso ai naviganti

Da lunedì 16 febbraio 2009 comincerà ufficialmente la mia collaborazione con la rivista online NULLA DIES SINE LINEA, che lascio presentare alle parole dei suoi editori:

Nulla dies sine linea è un blog multiautore e una rivista aperiodica generica e gratuita di cultura e controinformazione che riunisce i contributi di persone che, in un modo o nell’altro, non subiscono passivamente il mondo ma tentano di farsi un’opinione personale. Potete leggerci qui oppure ottenere ogni numero in formato pdf abbonandovi gratuitamente.
Nulla dies sine linea, nessun giorno senza una linea. Queste le parole che Plinio il Vecchio (Storia Nat., 35) attribuisce ad Apelle, pittore greco del IV secolo a.C., parole che si riferiscono al quotidiano impegno lavorativo dell’artista e che, oggi, valgono ancora per tutti quelli che, con l’esercizio costante della propria arte, del proprio lavoro e della propria ragione, osservano il mondo e tentano di capirlo. Almeno questo è l’impegno che vi vogliamo offrire. Buona lettura.
Come potete immaginare, mi occuperò di una rubrica sull'Asia: il primo post sarà ispirato ai recenti attacchi dei Talebani a Kabul, dopodiché l'appuntamento diventerà mensile, con particolare attenzione ai fatti di cronaca più recenti, visti dagli occhi di chi "fa l'indiano".

Come direbbero in Terra d'Albione
: stay tuned, there too!

mercoledì 4 febbraio 2009

Nuove leve, vecchi cognomi

La più grande democrazia del mondo si appresta a tornare alle urne. Entro maggio 2009, 671 milioni di persone saranno chiamate a scegliere il successore di Manmohan Singh alla guida del Governo: un momento cruciale per l'India, un Paese ancora scosso dagli attacchi terroristici di novembre, ma desideroso di riscatto e di mantenere il ruolo di primo piano a cui è giunto negli ultimi anni. Un Paese per cui il Fondo Monetario Internazionale ha previsto, nonostante la crisi economica, una crescita del 5% nel 2009 e del 6,5% nel 2010, che potrebbe rappresentare una delle ancore di salvezza per l'economia planetaria.

Se fino a qualche mese fa appariva come molto probabile una vittoria dell'alleanza guidata dal Partito conservatore BJP, le recenti tornate elettorali in Rajasthan, Mizoram e nel
National Capital Territory di Delhi hanno dimostrato che il Partito del Congresso, principale Partito della United Progressive Alliance, ha ancora buone chance di ottenere un altro mandato da parte degli elettori. Nella "rimonta" del partito che fu di Jawaharlal Nehru e Indira Gandhi, un ruolo determinante è stato svolto da Rahul Gandhi, trentottenne figlio di Rajiv Gandhi, il Primo Ministro assassinato nel 1991 da un estremista Tamil, e dell'italiana Sonia. Il successo di Rahul Gandhi all'interno del suo partito e presso gli elettori è stato in gran parte dovuto alla sua giovane età e alla scelta di giovani come candidati nelle diverse tornate elettorali, in un Paese dove gli elettori con meno di 35 anni rappresentano il 65% della popolazione e dove le persone chiamate per la prima volta al voto sono circa 100 milioni.

Rahul Gandhi è l'icona della nuova India, della generazione di trentenni che hanno visto il loro Paese uscire da un'economia autarchica e socialista che lo aveva condotto sull'orlo della bancarotta ed entrare a pieno titolo tra le potenze industriali ed economiche del XXI Secolo, di quei giovani che hanno saputo credere nel cambiamento e cogliere le opportunità offerte dalla globalizzazione, arrivando a guadagni e stili di vita che solo la generazione dei loro padri considerava irraggiungibili. Rahul è però anche il rampollo della dinastia Nehru-Gandhi, che, a fasi alterne, ha deciso le sorti dell'India negli utimi cento anni, da quando il trisnonno Motilal Nehru entrò a far parte del movimento di resistenza fondato dal Mahatma Gandhi. Ogni Nehru-Gandhi ha rappresentato un simbolo della propria epoca e Rahul non sfugge a questa definizione, rispecchiando perfettamente il miscuglio di tradizione, rappresentata dal suo lignaggio, e modernità che è oggi l'India.

Anche l'India dunque è colpita dalla voglia di credere in una nuova generazione di politici che sta attraversando tutto il globo, a partire dagli Stati Uniti, con qualche eccezione.

Barack, Vladimir, Kurmanbek e il futuro dell'Asia del Sud

Per la prima volta, "Fare l'indiano" esce dai confini dell'India, ma neanche troppo.

Il “grande casino in Afghanistan” denunciato dal vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden, a cui bisogna riconoscere un approccio molto diretto ai problemi di politica internazionale, rischia di peggiorare ulteriormente, a causa dell'intenzione del presidente del Kyrgyzstan, Kurmanbek Bakiyev, di chiudere l’accesso alla base aerea di Manas, alle porte della capitale Biškek. Con Uzbekistan ed Iran ostili all’America, il Pakistan ancora troppo instabile e per certi versi ambiguo ed il rifiuto da parte del Tajikistan di concedere l’uso dell aeroporto di Dushanbe per il traffico militare, Manas rappresenta un punto focale della strategia USA per l’Afghanistan, pagato profumatamente: dall'inizio dell'offensiva in Afghanistan, gli Stati Uniti hanno infatti versato al Kyrgyzstan 150 milioni di dollari all'anno in aiuti umanitari. Aiuti che, denuncia il giornalista pakistano Ahmed Rashid, sono andati ad ingrossare le tasche della classe dirigente kyrgyza, senza portare effettivi miglioramenti nella qualità della vita della popolazione.

Si può parlare di una vittoria diplomatica per Mosca, decisa a riaffermare il controllo sulle Repubbliche che una volta costituivano l'Unione Sovietica, che ha comprato la fedeltà di Bakiyev con un pacchetto di aiuti ed investimenti da 2 miliardi di dollari, ma per l'America e i suoi alleati è un duro colpo, giunto pressoché all'indomani dell'annuncio da parte di Obama sul raddoppio delle truppe di stanza in Afghanistan, necessario per procedere alla ricostruzione del Paese e alla repressione della controffensiva talebana, giunta ormai alle porte della capitale Kabul.

Negletta per anni dall’amministrazione Bush, la questione della ricostruzione nazionale in Afghanistan ha assunto la dovuta, fondamentale importanza con l’avvento alla Casa Bianca di Barack Obama: è impensabile che si possa raggiungere una stabilizzazione della situazione geopolitica di tutta la regione senza prima aver reso stabile e sicuro l'Afghanistan, e in questo caso con "regione" si intende tutta l'Asia del Sud, India compresa. Ricostruire l'Afghanistan potrebbe innanzitutto dimostrare al mondo arabo che l'approccio occidentale è radicalmente cambiato rispetto alla politica del "gettare la pietra e nascondere la mano" di George W. Bush ed esercitare una forte pressione sui gruppi talebani ed estremisti, tra cui al-Qaeda, che hanno trovato rifugio nelle terre di nessuno dell'Hindu Kush e nelle Aree Tribali ad Amministrazione Federale del Pakistan.

Sulle montagne dell'Hindu Kush si gioca il destino dell'Asia del Sud: un Afghanistan sicuro potrebbe significare in un prossimo futuro anche un Pakistan sicuro e la ripresa a pieno regime del dialogo tra Pakistan e India sulla questione del Kashmir, bruscamente interrotto dopo la carneficina di Mumbai del novembre scorso, in cui il ruolo dei gruppi estremisti islamici una volta appoggiati dall'Inter-Services Intelligence, i potenti servizi segreti pakistani, a oggi non è ancora stato del tutto chiarito. In una sorta di "effetto domino" della democrazia, un governo rappresentativo effettivamente funzionante in quello che una volta era il baluardo della repressione estremista potrebbe rappresentare la chiave di volta per un'Asia del Sud più stabile e contrastare l'effetto velenoso della predicazione pro-talebana nelle madrasse sparse per tutta la regione, dall'Uzbekistan al Pakistan.

Si tratta di un compito assai arduo, che sicuramente avrà un alto prezzo sia in termini economici che di vite umane, ma la posta in gioco è estremamente alta e se la perdita di Manas si dovesse concretizzare e a nulla dovessero valere gli sforzi diplomatici di queste ore, sarebbe un duro colpo ad un processo potenzialmente capace di cambiare il destino di quasi un miliardo e mezzo di persone.

giovedì 29 gennaio 2009

Viaggiare in India: Bundi

Quando si dice il caso...

Penso che a Bundi, città del Rajasthan lontana dai canonici itinerari turistici, si possa finire unicamente per caso o per precisa volontà. Per quanto mi riguarda, è valsa la prima opzione: fino al mio arrivo a Jaipur ero deciso a raggiungere Jodhpur, ma, avendo realizzato che il fattore tempo mi sarebbe stato decisamente avverso, aprendo a casaccio la Lonely Planet alla ricerca di una meta più alla portata dei miei due giorni, rimasi colpito dalla descrizione della cittadina da parte dell’autrice e decisi sul momento di andarvi. Gli inizi di questo viaggio non sono stati decisamente dei migliori: in seguito alla festa di Holi, buona parte degli autobus governativi erano stati cancellati e l’unico appetibile, programmato per le 15.15, si mosse unicamente alle 16.15.


Incredibilmente, eravamo dieci persone su tutto l’autobus, compresi alcuni verosimilmente costretti dal controllore a salire per arginare i danni di un viaggio economicamente in passivo, il che ha permesso un viaggio molto comodo, anche se ho corso il rischio che il pullman venisse annullato per mancanza di passeggeri. Grazie al fido iPod, nonché al paesaggio antico della strada che, attraverso i centri abitati di Tonk e Deoli, mi avrebbe condotto a Bundi, il viaggio di 210 chilometri, ossia cinque ore e mezza, si è rivelato ancora meno pesante del previsto: le grandi suite del progressive rock, da "Atom Hearth Mother" ed "Echoes" dei Pink Floyd a "Tales From The Topographic Oceans" degli Yes, sono, a mio parere, la perfetta colonna sonora per le strade dell'India.

Arrivando a sole già tramontato, dopo una strada abbastana tortuosa, che nasconde la città fino all’ultimo, l’improvvisa vista del palazzo e del forte illuminati, in cima ad una collina, e della città alle sue pendici, mi ha subito fatto capire di aver avuto fortuna nella scelta della meta. Il viaggio dalla stazione degli autobus all’albergo ha sempre più confermato la mia impressione: a Bundi, grazie alla pressoché totale assenza delle orrende colate di cemento che caratterizzano la maggior parte dell’India, specialmente nelle zone a più alta affluenza turistica, il tempo sembra essersi fermato. Albergo ineccepibile in quanto a pulizia e cordialità della gestione, una gustosa cena a base di Chicken Masala e una bella birra Kingfisher ghiacciata (estremamente piacevole, dopo una giornata su un pullman governativo del Rajasthan State Road Transport Corporation privo di aria condizionata) e dopodiché, a dormire, per recuperare le forze in vista di una domenica dedicata all'esplorazione.

E così, dopo una bella dormita e una “parca” colazione all’indiana, a base di masala omelette, aloo parantha (pane ripieno di patate e cipolle) e masala chai (té allo zenzero), rinfrancato, ho dedicato la domenica ad esplorare il posto. Naturalmente la mia visita non poteva che cominciare dal palazzo, costruito, nella sua forma attuale, dai reali di Bundi attorno al XVII secolo. Il potersi immergere nell’ammirazione delle strutture e dei magnifichi affreschi nella quiete della domenica mattina, quando il sole e il caldo del Rajasthan di fine marzo offrono ancora un minimo di tregua, e soprattutto senza interferenze, visti i pochissimi turisti, è evento raro, ma può, per fortuna, ancora succedere. Aveva ragione Rudyard Kipling quando, descrivendo le meraviglie del Rajasthan, che visitò verso la fine dell'ottocento, scriveva: "the Palace of Bundi, even in broad daylight, is such a palace as men build for themselves in uneasy dreams -- the work of goblins rather than of men."

Un'esperienza ancora più surreale è quella che ho vissuto al Taragarh, il “Forte delle Stelle”, posizionato in cima ad una collina, totalmente abbandonato, dove eravamo ben quattro esseri umani (io e tre ragazzi indiani che si sono offerti di accompagnarmi) e un centinaio di scimmie, incuriosite dalla nostra presenza ma affatto pericolose. Dai suoi bastioni, la vista della città, da cui, a causa della distanza, è esclusa ogni traccia di modernità, fa pensare di trovarsi ancora nel XVII secolo, quando i signori di Bundi guardavano i loro domini. Unica nota dolente (non nel senso metaforico) sono stati i rovi, con aculei lunghi diversi centimetri, per i più poetici testimonianza della selvaggia natura del Rajasthan, per me causa di un dolore lancinante ai piedi.

Non è un caso che Rudyard Kipling si fosse fermato a soggiornare sulle rive del Jait Sagar, lago artificiale a tre chilometri dal centro abitato, sulle cui rive lo scrittore inglese compose i Racconti delle Colline. In posti come questo è possibile rivivere le sensazioni che hanno vissuto i primi Europei che giunsero in India e che hanno contribuito a creare la nostra immagine collettiva dell'esotico, del mistico e dello spirituale.

Viaggiare in India: Varanasi

L'offerta di "Fare l'indiano" si amplia ulteriormente, anche se non se ne sentiva il bisogno, grazie alla nuova rubrica "Viaggi": non voglio certo mettermi a fare concorrenza alla Lonely Planet, ma attenermi più al concetto di "viaggio sentimentale" come lo aveva indicato Laurence Sterne.

C'è qualcosa di forse incomprensibile per noi occidentali, abituati da sempre a pensare in termini razionali, in Varanasi, la città santa per antonomasia dell'Induismo. Eppure il primo impatto, arrivando dall'aeroporto è quello di una tipica città dell'India e, in particolar modo, dell'Uttar Pradesh: il traffico caotico, esasperato da una rete viaria non adatta al numero di veicoli; l'approssimazione nella realizzazione degli edifici; l'odore acre dei rifiuti. Come già a Pushkar e, in generale, in tutte le città sante dell'India, si osserva una dieta strettamente vegetariana ed è proibita la vendita e somministrazione di bevande alcoliche. Un piccolo prezzo da pagare, paragonato a quello che si riesce a vedere e ad imparare da questo posto.

Una specie di mantra che si impara per le strade di Varanasi (o Benares, Banaras o altre dizioni che si possono trovare indistintamente) e che un genio ha avuto l'idea di mettere su maglietta è questo: No boat, no hash, no silk, no rickshaw, no hotel, no restaurant, no money... "Grazie" al continuo afflusso di turisti da tutto il mondo, i procacciatori d'affari sono più insistenti che altrove, col risultato che bisogna essere molto calmi e, soprattutto, avere già una certa esperienza dell'India per non cadere in uno stato simile al protagonista di "Un giorno di ordinaria follia".

Ma Kashi, come veniva chiamata anticamente, non è questo: è i suoi ghat, dove milioni di pellegrini ogni anno si bagnano in Ganga, la Grande Madre; è i suoi innumerevoli templi, segno di una devozione incrollabile nell'ausilio degli dei; è la schiera di sadhu, pellegrini, asceti e semplici devoti che in essa testimoniano la forza delle convinzioni dell'Induismo.

Per capire il significato di questa città e la straordinaria valenza che essa ha per gli Induisti, devo fare una breve digressione. Come molti sanno, l'Induismo prevede per ogni anima un ciclo di reincarnazioni, detto samsara, che deve sottostare alle leggi del karma: salvo alcuni periodi passati in una specie di Paradiso, dove, spiega una bellissima immagine del Mahabharata, le anime sedute in una platea ascoltano il dio Brahma svelare gli enigmi del creato, ognuno di noi è costretto a tornare sulla Terra, per cercare di migliorare il proprio karma e liberarsi dal samsara. Esiste una via più breve per abbandonare questo ciclo di morte e rinascita, ossia morire a Varanasi e far sì che il proprio rito funebre si svolga su uno dei ghat.

A Varanasi si mischiano la gioia e il dolore, la vita e la morte, la devozione e l'indifferenza, la forza e la paura. Una miriade di rituali antichissimi, come testimonia il persistente uso del Sanscrito nella celebrazione, viene ogni giorno attuate sulle rive della Grande Madre. Uno dei più suggestivi è quello che si svolge al mattino, per salutare la nascita del Sole, da cui il nome di Surya Namaskaar: l'ho potuto vedere di sfuggita, dalla finestra della mia camera d'albergo, ancora parecchio assonnato, ma ho in mente l'immagine dei devoti rivolti verso il Sole a dargli ancora una volta il benvenuto, come da migliaia di anni.

Un discorso a parte lo merita la cerimonia del funerale, a cui per tradizione possono prendere parte solo gli uomini. Innanzitutto mi è stato spiegato che la cremazione non è per tutti: i bambini, le donne incinte e chi è morto in circostanze particolari (ad esempio ucciso dal morso di un serpente), ritenuti particolarmente puri, non vengono cremati, ma ad essi viene legata una pietra al collo e sono gettati direttamente nella Ganga. Per tutti gli altri, il rituale prevede la cremazione. Dopo essere stato lavato con le acque del Gange, il defunto viene coperto con legno di sandalo, per attenuare gli odori, e di banyan, un albero ritenuto sacro: è particolarmente impressionante vedere le enormi cataste di legna. La pira viene poi accesa tramite una fascina, il cui fuoco è stato acceso presso il tempio di Shiva che sovrasta uno dei ghat, che si dice essere alimentato da migliaia di anni senza interruzione. Il fuoco viene poi alimentato e mantenuto per ore grazie al ghi, un burro chiarificato che causa un fumo particolarmente denso. Quando il corpo, dopo ore, è totalmente incenerito, le ceneri vengono raccolte e sparse nel fiume. È quì che si mischiano vari sentimenti nei partecipanti, che hanno sì perso il loro caro, ma averlo perso a Varanasi significa che è libero dal samsara: la sua anima ha finito di essere tormentata dal ciclo delle reincarnazioni è può finalmente annullarsi.

Particolare valore hanno degli edifici fatiscenti posti sulle rive del Gange: sono ospizi, a volte gestiti addirittura dai vari governi dello Stato Indiano, dove gli anziani con pochi mezzi economici possono ritirarsi ed aspettare la fine in pace ed in meditazione. Vicino ad uno dei ghat, delle vecchiette raccolgono donazioni per mandare avanti questi ospizi e per comprare i numerosi chili di legna che servono al rituale funebre: una di queste, che dicono avere 107 anni (!), mi ha anche benedetto a fronte di una piccola donazione. Spero che il mio contributo sia servito e che sia davvero stato utilizzato per la causa che mi è stata detta: se quei soldi sono stati spesi per fare felice qualcuno, a prescindere dal fatto che le sue convinzioni siano vere o false, ben venga.

Un'altra esperienza unica è girare per i vicoli della città vecchia, estremamente decadenti, ma dove ad ogni angolo si può trovare qualcosa che colpisce l'occhio, sia esso un tempietto finemente costruito nascosto dai palazzi, una moschea, che simboleggia la grande tolleranza religiosa degli Indiani, una casa riccamente decorata di fregi, oppure un bel cortile. Perdersi per i suoi vicoli (e perdersi è automatico) può rivelarsi un modo estremamente affascinante di trascorrere un pomeriggio a Varanasi.

mercoledì 28 gennaio 2009

Jai Hind

Jai Hind”, lunga vita all’India: è questo l’urlo della folla, riscaldata dai raggi di un sole quasi primaverile, che annuncia l’inizio della parata per il Republic Day, la Festa della Repubblica che ogni anno, il 26 gennaio, in un misto tra parata militare e sfilata di carri allegorici, celebra l’orgoglio della Nazione indiana. Tradizionalmente, la parata si svolge sul Rajpath, il Sentiero dei Re famoso quale ambientazione del funerale di Gandhi nell’omonimo film di Richard Attenbourough, che collega l’India Gate all’imponente Rashtrapati Bhawan, ex residenza del Viceré inglese e oggi dimora del Presidente.

Il nuovo clima di timore che attraversa il Paese dopo gli attacchi di Mumbai si riflette nelle imponenti misure di sicurezza: le persone sono incanalate in percorsi obbligati, sotto lo sguardo vigile dei cecchini, appostati su tutti i palazzi che danno sul Rajpath, mentre è vietato l’ingresso nei lussuosi albergi Le Meridien e Shangri-La. L’accesso alle vie che portano alle tribune non è consentito dopo le nove e mezza, e questo da origine a brevi disordini tra la polizia e i civili che cercano di oltrepassare il cordone di sicurezza messo in piedi dalle autorità.

La prima e più toccante parte della cerimonia è riservata alla distribuzione delle Ashoka Chakra, medaglie al merito, che quest’anno sono quasi tutte dedicate postume agli eroi che hanno perso la vita a Mumbai, primo tra tutti Hermant Karkare, il capo dell’unità antiterrorismo della Polizia di Mumbai, caduto sotto il fuoco nemico durante l’assalto al Victoria Terminus. Le mogli e i parenti dei caduti ricevono dalla Presidentessa Prathiba Patil le medaglie tra gli scroscianti applausi della folla. L’onore dell’aprire la parata vera e propria spetta, come era facile immaginarsi, al Brahmos, il missile nucleare sviluppato dall’India come deterrente per i vicini più scomodi, seguito da altri mezzi militari e dal missile intercontinentale Agni-III, un ulteriore monito ai Paesi confinanti sulla capacità strategiche dell’India. Gli speaker decantano le lodi dei diversi mezzi e reggimenti che sfilano ordinatamente davanti alla tribuna d’onore, mentre gli elicotteri dell’esercito lanciano petali sulle tribune. Oltre ai militari, hanno l’onore di sfilare davanti alle autorità anche alcuni civili, tra cui i bambini insigniti del Brave Children Award.

In un secondo tempo, l’alta tradizione marziale ereditata dall’Impero Britannico, come dimostra il paradosso di indiani vestiti alla scozzese con tanto di kilt intenti a suonare delle cornamuse, lascia spazio al nazional-popolare, quando i carri allegorici dei diversi Stati dell’Unione Indiana imboccano il Rajpath: in una versione indiana del Carnevale di Viareggio, i carri degli Stati di Assam, Maharashtra, Tripura, Madhya Pradesh, Uttarakhand, Jammu & Kashmir, assieme ai carri dell’Indian Railways e di altre agenzie governative sfilano davanti alla folla festante. Il momento conclusivo della festa, dulcis in fundo, è rappresentato dal passaggio dei caccia dell’Indian Air Force, che si limitano ad un volo a bassa quota e all’esecuzione in un breve torneau.

Non mancano, ovviamente, gli aspetti curiosi della parata, tra cui è doveroso citare la mancanza per la prima volta degli elefanti, eliminati dal programma in quanto troppo suscettibili alla confusione delle migliaia di persone presenti, e le squadre in tuta arancione deputate alla raccolta degli escrementi generati dai reggimenti a cavallo e a dorso di cammello, costrette in certi casi dalle necessità dello spettacolo a seguire di corsa gli animali lanciati al trotto.

È nell’ammirazione e nell’orgoglio percepibili negli occhi degli Indiani presenti che si colgono dei significati in questa parata: ricordare all’India che è una nazione giovane, da soli sessant’anni indipendente e con un cammino lungo e pieno di insidie davanti; risvegliare negli Indiani l’orgoglio di cinquemila anni di storia e cultura. E, come il pavone fa bella mostra della sua ruota, ricordare che sono sì una democrazia, ma molto ben armata.

lunedì 19 gennaio 2009

Carbon footprint

Per la gioia di grandi e piccini, “Fare l’indiano” riapre i battenti dopo la lunga pausa invernale (pausa per il blog, ma non per l’autore, a cui è toccato lavorare parecchio).

Nei giorni scorsi in Italia si è fatto un gran parlare sul “fatto” che i ghiacciai del Polo Nord sono tornati ai livelli degli anni ’70 del XX Secolo: le virgolette sono doverose, dal momento che la realtà è tristemente diversa da quanto millantato da molte testate nel nostro Paese. Non sta a me dilungarmi su quanto il nostro Presidente del Consiglio sia allergico al cosiddetto “pacchetto 20-20-20”, proposto dall’Unione Europea e caldeggiato da diversi leader, quali Nicholas Sarkozy e Angela Merkel, e su quanto questa allergia abbia contagiato i giornali italiani, ma, visto che molte delle disgrazie climatiche del nostro pianeta sono attribuite ai Paesi emergenti, Cina e India in primis, può essere interessante valutare quanto effettivamente le emissioni indiane influiscano sul nostro ecosistema.

Secondo i dati dell’Energy Information Administration degli Stati Uniti, la principale fonte energetica dell’India è il carbone (53%), seguito dal petrolio (33%), dal gas naturale (8%). Idroelettrico e nucleare rappresentano le fonti di energia meno utilizzate, rispettivamente al 5% e all’1%. Lascia perplessi il constatare che una Nazione posta alle pendici della catena himalayana, il cui potenziale idroelettrico, unicamente sul lato indiano, è stato stimato in più di 207 GW, ossia il 26% del fabbisogno nazionale, derivi più della metà della propria energia dal carbone.

Ma qual è il rapporto tra l’India e il carbone? Perché uno Stato in cui il sole splende per dieci mesi all’anno, con un enorme potenziale idroelettrico ed eolico, continua ad affidarsi alla fonte energetica più obsoleta?

Il fatto che esista un Ministero del Carbone già non fa presupporre buone risposte alle mie domande, ed una visita al suo sito peggiora ulteriormente l’impressione. Nella colonna del menu a sinistra, difatti, campeggia un link non molto invitante per chi ha a cuore la sorte del nostro pianeta: “Coal – Indian Energy Choice” (1). Aprire la pagina fa venire un tuffo al cuore: si legge difatti che “COAL is the most important and abundant fossil fuel in India. It accounts for 55% of the country's energy need. […] Considering the limited reserve potentiality of petroleum & natural gas, eco-conservation restriction on hydel project and geo-political perception of nuclear power, coal will continue to occupy centre-stage of India's energy scenario.” (2) Si sfiora poi il ridicolo, quando il carbone viene definito “a unique ecofriendly fuel source” (3).

Constatare che a distanza di due anni, cioè da quando consultai per la prima volta il sito per lavoro, il testo sia rimasto invariato mi fa sperare che si tratti di una vecchia e poco azzeccata campagna di marketing a favore del carbone, ma le notizie più recenti sembrano smentirmi: Tata Ultra Mega difatti non è un nuovo, gigantesco SUV, bensì un progetto per una centrale a carbone da 4 GW da realizzarsi a Mundra, nello Stato indiano del Gujarat, sponsorizzato dal gigante dell’industria indiana. Il progetto viene definito come “pulito”, grazie all’utilizzo della cosiddetta Supercritical technology, ma rimangono forti perplessità sull’efficacia di questi sistemi. Perplessità per gli scienziati e gli ambientalisti, non certo per gli invetitori, il cui profitto su una centrale a carbone è basato soprattutto sul livello di investimenti effettuati.

Tata potrebbe inoltre essere responsabile di un vero e proprio disastro ambientale, oltre che di uno scempio per chi come me deve affrontare ogni giorno il traffico di una megalopoli come Delhi. Se i volumi di vendita della Nano, la macchina ideata e progettata per costare 100.000 Rupie, una cifra che in India ha un forte valore simbolico, raggiungeranno le previsioni, le malridotte strade indiane verranno invase da uno sciame di un milione di veicoli in più all’anno, vanificando i pochi sforzi compiuti dall’India per diminuire il tasso di inquinamento delle sue grandi città.

In un mix esplosivo di mancanza di attenzione per le energie più pulite, interessi di grandi industriali e forte crescita economica, pur in tempi di crisi economica, l’India rappresenta effettivamente un rischio per il già precario equilibrio ambientale della Terra. Con buona pace dei nostri ghiacci.

Note di traduzione per i meno anglofoni:
(1) Carbone – la scelta indiana per l’energia
(2) Il CARBONE è il combustibile fossile più importante ed abbondante in India. Da esso si ricava il 55% del fabbisogno energetico del Paese. [...] Considerando la limitatezza delle riserve di petrolio e gas naturale, le restrizioni ambientali sui progetti idroelettrici e la percezione geopolitica delle centrali nucleari, il carbone continuerà a svolgere un ruolo primario nella produzione di energia in India.
(3) Una fonte energetica unica e amica dell’ambiente