mercoledì 4 febbraio 2009

Barack, Vladimir, Kurmanbek e il futuro dell'Asia del Sud

Per la prima volta, "Fare l'indiano" esce dai confini dell'India, ma neanche troppo.

Il “grande casino in Afghanistan” denunciato dal vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden, a cui bisogna riconoscere un approccio molto diretto ai problemi di politica internazionale, rischia di peggiorare ulteriormente, a causa dell'intenzione del presidente del Kyrgyzstan, Kurmanbek Bakiyev, di chiudere l’accesso alla base aerea di Manas, alle porte della capitale Biškek. Con Uzbekistan ed Iran ostili all’America, il Pakistan ancora troppo instabile e per certi versi ambiguo ed il rifiuto da parte del Tajikistan di concedere l’uso dell aeroporto di Dushanbe per il traffico militare, Manas rappresenta un punto focale della strategia USA per l’Afghanistan, pagato profumatamente: dall'inizio dell'offensiva in Afghanistan, gli Stati Uniti hanno infatti versato al Kyrgyzstan 150 milioni di dollari all'anno in aiuti umanitari. Aiuti che, denuncia il giornalista pakistano Ahmed Rashid, sono andati ad ingrossare le tasche della classe dirigente kyrgyza, senza portare effettivi miglioramenti nella qualità della vita della popolazione.

Si può parlare di una vittoria diplomatica per Mosca, decisa a riaffermare il controllo sulle Repubbliche che una volta costituivano l'Unione Sovietica, che ha comprato la fedeltà di Bakiyev con un pacchetto di aiuti ed investimenti da 2 miliardi di dollari, ma per l'America e i suoi alleati è un duro colpo, giunto pressoché all'indomani dell'annuncio da parte di Obama sul raddoppio delle truppe di stanza in Afghanistan, necessario per procedere alla ricostruzione del Paese e alla repressione della controffensiva talebana, giunta ormai alle porte della capitale Kabul.

Negletta per anni dall’amministrazione Bush, la questione della ricostruzione nazionale in Afghanistan ha assunto la dovuta, fondamentale importanza con l’avvento alla Casa Bianca di Barack Obama: è impensabile che si possa raggiungere una stabilizzazione della situazione geopolitica di tutta la regione senza prima aver reso stabile e sicuro l'Afghanistan, e in questo caso con "regione" si intende tutta l'Asia del Sud, India compresa. Ricostruire l'Afghanistan potrebbe innanzitutto dimostrare al mondo arabo che l'approccio occidentale è radicalmente cambiato rispetto alla politica del "gettare la pietra e nascondere la mano" di George W. Bush ed esercitare una forte pressione sui gruppi talebani ed estremisti, tra cui al-Qaeda, che hanno trovato rifugio nelle terre di nessuno dell'Hindu Kush e nelle Aree Tribali ad Amministrazione Federale del Pakistan.

Sulle montagne dell'Hindu Kush si gioca il destino dell'Asia del Sud: un Afghanistan sicuro potrebbe significare in un prossimo futuro anche un Pakistan sicuro e la ripresa a pieno regime del dialogo tra Pakistan e India sulla questione del Kashmir, bruscamente interrotto dopo la carneficina di Mumbai del novembre scorso, in cui il ruolo dei gruppi estremisti islamici una volta appoggiati dall'Inter-Services Intelligence, i potenti servizi segreti pakistani, a oggi non è ancora stato del tutto chiarito. In una sorta di "effetto domino" della democrazia, un governo rappresentativo effettivamente funzionante in quello che una volta era il baluardo della repressione estremista potrebbe rappresentare la chiave di volta per un'Asia del Sud più stabile e contrastare l'effetto velenoso della predicazione pro-talebana nelle madrasse sparse per tutta la regione, dall'Uzbekistan al Pakistan.

Si tratta di un compito assai arduo, che sicuramente avrà un alto prezzo sia in termini economici che di vite umane, ma la posta in gioco è estremamente alta e se la perdita di Manas si dovesse concretizzare e a nulla dovessero valere gli sforzi diplomatici di queste ore, sarebbe un duro colpo ad un processo potenzialmente capace di cambiare il destino di quasi un miliardo e mezzo di persone.

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