lunedì 23 febbraio 2009

Viaggiare in India: Bhopal e Sanchi

Il nome di Bhopal è associato ad una delle più grandi tragedie industriali della Storia: è passata da pochi minuti la mezzanotte del 2 dicembre 1984 quando, a causa di un guasto agli impianti di contenimento dei prodotti chimici, dalla fabbrica della Union Carbide si riversano sull'assopita città indiana 40 tonnellate di isocianato di metile (MIC), componente essenziale nella fabbricazione dell'insetticida Sevin. Ancor'oggi, a più di ventiquattro anni di distanza, i segni del disastro si fanno sentire, soprattutto nella popolazione ammassata nei quartieri popolari a ridosso dell'area industriale dove aveva sede la Union Carbide.

Arrivando dalla città vecchia, il muro che costeggia la strada è ricoperto di riquadri neri, le cui scritte bianche chiedono giustizia per le vittime del disastro e denunciano la collusione tra Union Carbide, The Dow Chemical Company, l'azienda che rilevò la Union Carbide nel 2001, e il Governo del Madhya Pradesh, reo a detta degli accusatori di non aver agito con sufficiente incisività per contrastare gli effetti venefici delle infiltrazioni di MIC nel terreno e di aver appoggiato gli interessi americani piuttosto che la popolazione. Frotte di ragazzini, in cerca di qualche rupia, circondano il mio autorickshaw mentre mi avvicino all'area industriale, lanciano qualche sassolino ma scappano alla prima occhiataccia, salvo ricomparire dopo pochi minuti per chiedere ancora più insistentemente la carità e lanciare qualche altro sassolino. Tutto si ferma al comparire di un poliziotto, evidentemente deputato al sorvegliamento della fabbrica, che mi informa, con mio profondo disappunto, che l'unico modo per accedere al complesso della Union Carbide è l'ottenimento di un modulo presso un ufficio specifico. A nulla valgono i blandi tentativi di convincere la guardia e mi devo allontanare, non prima di aver buttato un occhio al profilo della fabbrica, che si staglia da dietro gli alberi.

Non resta altro che una passeggiata, perdendosi nell'intricato labirinto di vie che costituiscono il Chowk Bazaar, passando sotto gli imponenti minareti della Taj-ul-Masjid, una delle moschee più grandi di tutta l'India, e percorrendo le vie fino all'Upper Lake, dove cercare ristoro dal caldo, già forte a febbraio, all'ombra di uno dei gazebo sulle rive del lago, aspettando che il sole scenda e ne faccia risplendere la superficie. 

Gradevole come meta per un giorno, Bhopal costituisce soprattutto un'ottima base per esplorare la regione. Gioiello dell'area è Sanchi, a circa sessanta chilometri, vero capolavoro dell'arte e dell'architettura buddhista. Non stupisce che il grande imperatore Ashoka, convertitosi al buddhismo, avesse scelto proprio Sanchi per fondare il grande complesso monastico: ancora oggi il sito, immerso nella quiete della campagna del Madhya Pradesh, trasmette una sensazione di pace, interrotta unicamente dal lontano fischiare di un treno o dallo schiamazzare di qualche visitatore poco rispettoso. Esperienza unica è trovarsi a Sanchi al tramonto, quando ormai la maggior parte delle orde di scolaresche e di gruppi turistici ha abbandonato l'area e, nel silenzio quasi più assoluto, la luce morente del giorno dipinge di tonalità rosacee gli stupa che, da più di duemila anni, testimoniano la religiosità e il gusto dei regnanti indiani.

giovedì 19 febbraio 2009

L'ospite è Dio

Viaggiando per l'India, soprattutto nelle località meno battute dal turismo internazionale, capita sovente di imbattersi in monumenti di grandiosa bellezza, ma purtroppo lasciati nella quasi completa incuria e alla mercé dei vandali. 

Ne è un esempio calzante la maestosa fortezza di Gwalior, nello Stato del Madhya Pradesh, pressoché totalmente fuori da qualunque tour organizzato e non, dove gli edifici che una volta ospitavano la fastosa corte degli Scindia sono ridotti ormai in uno stato che ricorda decisamente le periferie delle nostre città.

Può poi capitare di essere oggetto di raggiri, schernimento e anche di un sasso lanciato da un ragazzino dotato di scarsa mira e di ancor minore educazione in una via di Bhopal. Chi rischia di più in assoluto sono le ragazze occidentali, di cui i ragazzi indiani hanno sovente un'immagine distorta, complice la trasmissione da parte delle emittenti locali di soap opera come "Beautiful", che sicuramente non annoverano modelli di virtù tra i protagonisti e che vengono prese, specie nell'India delle piccole città, come metro di giudizio su tutto l'Occidente, come ci ricorda Pankaj Mishra nel divertente libro "Pollo al burro a Ludhiana".

Per combattere questi fenomeni di malcostume, che rischiano di ledere l'immagine dell'India come meta accogliente per i turisti, il Ministero del Turismo ha recentemente lanciato una lodevole iniziativa di sensibilizzazione sul tema: Atithi Devo Bhavah. Sotto l'aspetto concettuale, la campagna pubblicitaria appare molto azzeccata, grazie ad una sapiente miscela di tradizione, rappresentata dal nome stesso dell'iniziativa, un antico detto sanscrito traducibile letteralmente come "l'Ospite è Dio [e come un Dio va trattato]", e di modernità, grazie alla scelta di un attore in voga quale Aamir Khan come testimonial.

Non resta che augurarsi che il messaggio venga recepito.

mercoledì 18 febbraio 2009

Una vita Tata

In Italia siamo abituati a considerare Tata unicamente come un produttore di automobili, non rendendoci conto delle effettive dimensioni del gruppo industriale fondato nel 1868 da Jamshetji Tata, discendente di una famiglia di sacerdoti Parsi del Gujarat. Quello che cominciò sul finire del XIX Secolo come un piccolo stabilimento tessile per la lavorazione del cotone a Nagpur divenne nel corso degli anni un'immenso impero economico, capace di avere interessi in molti ambiti della vita del consumatore indiano, come Vijay, il protagonista di questo breve racconto.
Il sole comincia a penetrare tra le tende e Vijay si sveglia. Sono le sette di una mattina come tante altre a Mumbai e, per vederci meglio, Vijay accende la luce grazie all'energia fornita dalla Tata Power. In cucina, la moglie Meenu sta facendo bollire la miscela di acqua e latte, dove poi metterà qualche busta di Tata Tea, e preparando le parantha, dosando sapientemente farina, spezie e il sale Tata. Vijay finisce di prepararsi, si infila l'orologio Titan, prodotto dalla Tata, e si reca in sala per la colazione e per guardare i notiziari, grazie al nuovo decoder satellitare Tata Sky. Sta finendo la sua colazione quando suona il suo cellulare, per il quale ha scelto un abbonamento Tata Indicom; Vijay sta invecchiando e per vedere il numero che lo sta chiamando deve inforcare gli occhiali Titan Eye: è Malhotra, un suo collega, che vuole comunicargli l'anticipazione della riunione prevista per le ore 15.00 alle 14.30. Poco male, risponde Vijay quasi meccanicamente, mentre arrivano finalmente a tavola suo figlio Amit, 27 anni, una laurea in informatica ed un buon posto alla Tata Consultancy, sua figlia Neeta, più piccola, in vacanza dai genitori per una pausa nelle lezioni all'Indian Insitute of Science di Bangalore, creato per volontà di Jamshetji Tata. Vijay guarda la sua famiglia riunita ed è contento, pensa di aver fatto un buon lavoro... a proposito di lavoro, se non si muove rischia di arrivare tardi e il traffico di Mumbai è spietato. Saluta la sua famiglia, si infila la giacca e scende verso la sua macchina, una Tata Indica rossa. Mentre sale in macchina pensa di andare a trovare un giorno l'altro suo nipote, Prakash, che lavora in un hotel della catena Taj Hotels a Jaipur.
La strada è già affollata, ci metterà almeno un'ora ad essere al suo ufficio alla Tata Steel. Poco male, si ripete Vijay, ho sempre la mia autoradio Sony a tenermi compagnia.
Nota di redazione: avrei potuto andare ancora avanti, aggiungere altri dettagli, ma mi sembra che questo racconto, così com'è, già dia una forte idea della penetrazione dell'impero Tata nella vita di tutti gli indiani.

lunedì 16 febbraio 2009

Google for PM

Le elezioni parlamentari in India si fanno sempre più vicine e, come è logico aspettarsi, è cominciato il bombardamento mediatico che contraddistingue qualunque democrazia durante le campagne elettorali. Singolare e senza dubbio inaspettata la scelta del Bharatiya Janata Party, che deve aver raggiunto un particolare accordo con Google per l'utilizzo di AdSense, dal momento che qualunque sito internet soddisfi semplicemente tre requisiti, ossia parlare di India, avere degli spazi Google AdSense ed essere raggiunto tramite un ISP indiano, è letteralmente inondato da annunci inneggianti a Lal Krishna Advani, candidato premier del BJP e della coalizione da esso guidata, la National Democratic Alliance.

Anche questo blog, se raggiunto tramite un ISP indiano, non sfugge a questa logica, a dimostrazione della viralità della campagna organizzata dai sostenitori dell'ottantunenne ex Ministro degli Interni al grido di "Advani for PM
". I link rimandano al sito internet del candidato di destra, a cui bisogna riconoscere una cura fuori del comune standard dei siti istituzionali indiani, decisamente studiato per attrarre il maggior pubblico possibile. Risulta evidente come anche un partito conservatore come il BJP, espressione della destra nazionalista indiana, abbia capito la fondamentale importanza di Internet per convogliare un messaggio politico ai giovani, che, come ho già avuto modo di ricordare in un precedente post, rappresentano un bacino elettorale di primaria importanza nel contesto indiano.

Non potendo, a differenza del Congress Party, proporre candidati giovani e al contempo credibili, ecco che la destra indiana si affida ad Internet ed ai nuovi media, sperando che criteri comunicativi simili a quelli che hanno portato alla Casa Bianca un quarantasettenne afroamericano possano riportare sulla cresta dell'onda uno dei politici più anziani dell'India.

venerdì 13 febbraio 2009

Abbaiare all'albero sbagliato

Evidentemente l'entusiasmo che ha attraversato tutto il mondo con l'avvento alla Casa Bianca di Barack Obama non ha colpito le alte sfere della politica indiana, per lo meno sotto uno degli aspetti più spinosi: la questione del Kashmir. Come già il precedente Presidente democratico, Bill Clinton, che nel 2000, in occasione di una visita nell'Asia del Sud, aveva definito il Kashmir come "il posto più pericoloso al mondo", anche Obama ha indicato la mai risolta disputa territoriale tra India e Pakistan quale uno dei punti focali per raggiungere la stabilità nell'intera regione.

Nei giorni scorsi si è assistito a quello che il Washington Post ha definito come un diplomatic coup, un "golpe diplomatico", ossia la cancellazione dietro pressioni indiane della questione del Kashmir dall'agenda di Richard "Bulldozer" Holbrooke, l'inviato speciale della nuova amministrazione USA in Pakistan e Afghanistan, già artefice degli accordi di Dayton che posero fine alla guerra in Bosnia-Erzegovina. Certi ambienti indiani non hanno decisamente gradito quella che ai loro occhi appare come un'ingerenza USA su questioni prettamente di politica interna, come ha rimarcato il National Security Adviser M. K. Narayanan in un'intervista concessa al periodico Outlook India, a cui si deve l'espressione che dà il titolo a questo post. Secondo quanto stabilito dallo Shimla Agreement del 1972, firmato l'anno successivo alla guerra che determinò l'indipendenza del Bangladesh e la sconfitta del Pakistan, le due Nazioni sarebbero tenute infatti a risolvere unicamente tra di loro le controversie territoriali, senza interventi esterni. Le obiezioni alla condotta indiana sulla questione, basata su un documento che per prima violò nel 1984 con l'occupazione del ghiacciaio del Siachen, approfittando di una definizione approssimativa dei confini nello Shimla Agreement, sono molte, soprattutto dal Pakistan, che ha sempre appoggiato un intervento mediatorio USA nella questione. L'India pare però su questo punto irremovibile: già le iniziative di Bill Clinton nel 2000 suscitarono eguali reazioni dalla "nomenklatura" indiana.

La vera paura dell'India potrebbe risiedere nella possibilità che una mediazione USA possa riportare in auge quanto stabilito nella Risoluzione n. 47 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (pdf), per cui il destino del Kashmir avrebbe dovuto essere deciso da un referendum, con cui la popolazione avrebbe potuto scegliere tra India, Pakistan o, come terza opzione, la creazione di un Kashmir indipendente. L'odierno Stato indiano del Jammu & Kashmir, in cui il 66% della popolazione professa l'Islam, si compone di tre distinte realtà territoriali: il Kashmir, con una popolazione al 97% musulmana; il Jammu a maggioranza Hindu (65%); il Ladakh, dove predominano con il 46% circa ciascuna le confessioni musulmana e buddista. Non è forse troppo azzardato ipotizzare che qualunque modalità di voto, statale o territoriale, significherebbe una sconfitta per l'India nel Kashmir, che nella migliore delle ipotesi potrebbe mantenere il controllo sul Jammu ed ottenere una seppur risicata vittoria in Ladakh, sebbene le ultime elezioni tenutesi alla fine del 2008 abbiano visto la vittoria del Jammu & Kashmir National Conference, partito dichiaratamente pro-indiano e alleato dell'Indian National Congress.

A ripercorrere la travagliata storia del Kashmir dal 1947 ad oggi, una mediazione internazionale appare come l'unica via percorribile per una soluzione di un conflitto che ha già causato migliaia di morti e portato le due Nazioni sull'orlo di una guerra nucleare, ma il dietro-front della diplomazia USA sul tema dimostra come ormai non si possa più non tenere conto, sullo scacchiere internazionale, dell'India.

Avviso ai naviganti

Da lunedì 16 febbraio 2009 comincerà ufficialmente la mia collaborazione con la rivista online NULLA DIES SINE LINEA, che lascio presentare alle parole dei suoi editori:

Nulla dies sine linea è un blog multiautore e una rivista aperiodica generica e gratuita di cultura e controinformazione che riunisce i contributi di persone che, in un modo o nell’altro, non subiscono passivamente il mondo ma tentano di farsi un’opinione personale. Potete leggerci qui oppure ottenere ogni numero in formato pdf abbonandovi gratuitamente.
Nulla dies sine linea, nessun giorno senza una linea. Queste le parole che Plinio il Vecchio (Storia Nat., 35) attribuisce ad Apelle, pittore greco del IV secolo a.C., parole che si riferiscono al quotidiano impegno lavorativo dell’artista e che, oggi, valgono ancora per tutti quelli che, con l’esercizio costante della propria arte, del proprio lavoro e della propria ragione, osservano il mondo e tentano di capirlo. Almeno questo è l’impegno che vi vogliamo offrire. Buona lettura.
Come potete immaginare, mi occuperò di una rubrica sull'Asia: il primo post sarà ispirato ai recenti attacchi dei Talebani a Kabul, dopodiché l'appuntamento diventerà mensile, con particolare attenzione ai fatti di cronaca più recenti, visti dagli occhi di chi "fa l'indiano".

Come direbbero in Terra d'Albione
: stay tuned, there too!

mercoledì 4 febbraio 2009

Nuove leve, vecchi cognomi

La più grande democrazia del mondo si appresta a tornare alle urne. Entro maggio 2009, 671 milioni di persone saranno chiamate a scegliere il successore di Manmohan Singh alla guida del Governo: un momento cruciale per l'India, un Paese ancora scosso dagli attacchi terroristici di novembre, ma desideroso di riscatto e di mantenere il ruolo di primo piano a cui è giunto negli ultimi anni. Un Paese per cui il Fondo Monetario Internazionale ha previsto, nonostante la crisi economica, una crescita del 5% nel 2009 e del 6,5% nel 2010, che potrebbe rappresentare una delle ancore di salvezza per l'economia planetaria.

Se fino a qualche mese fa appariva come molto probabile una vittoria dell'alleanza guidata dal Partito conservatore BJP, le recenti tornate elettorali in Rajasthan, Mizoram e nel
National Capital Territory di Delhi hanno dimostrato che il Partito del Congresso, principale Partito della United Progressive Alliance, ha ancora buone chance di ottenere un altro mandato da parte degli elettori. Nella "rimonta" del partito che fu di Jawaharlal Nehru e Indira Gandhi, un ruolo determinante è stato svolto da Rahul Gandhi, trentottenne figlio di Rajiv Gandhi, il Primo Ministro assassinato nel 1991 da un estremista Tamil, e dell'italiana Sonia. Il successo di Rahul Gandhi all'interno del suo partito e presso gli elettori è stato in gran parte dovuto alla sua giovane età e alla scelta di giovani come candidati nelle diverse tornate elettorali, in un Paese dove gli elettori con meno di 35 anni rappresentano il 65% della popolazione e dove le persone chiamate per la prima volta al voto sono circa 100 milioni.

Rahul Gandhi è l'icona della nuova India, della generazione di trentenni che hanno visto il loro Paese uscire da un'economia autarchica e socialista che lo aveva condotto sull'orlo della bancarotta ed entrare a pieno titolo tra le potenze industriali ed economiche del XXI Secolo, di quei giovani che hanno saputo credere nel cambiamento e cogliere le opportunità offerte dalla globalizzazione, arrivando a guadagni e stili di vita che solo la generazione dei loro padri considerava irraggiungibili. Rahul è però anche il rampollo della dinastia Nehru-Gandhi, che, a fasi alterne, ha deciso le sorti dell'India negli utimi cento anni, da quando il trisnonno Motilal Nehru entrò a far parte del movimento di resistenza fondato dal Mahatma Gandhi. Ogni Nehru-Gandhi ha rappresentato un simbolo della propria epoca e Rahul non sfugge a questa definizione, rispecchiando perfettamente il miscuglio di tradizione, rappresentata dal suo lignaggio, e modernità che è oggi l'India.

Anche l'India dunque è colpita dalla voglia di credere in una nuova generazione di politici che sta attraversando tutto il globo, a partire dagli Stati Uniti, con qualche eccezione.

Barack, Vladimir, Kurmanbek e il futuro dell'Asia del Sud

Per la prima volta, "Fare l'indiano" esce dai confini dell'India, ma neanche troppo.

Il “grande casino in Afghanistan” denunciato dal vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden, a cui bisogna riconoscere un approccio molto diretto ai problemi di politica internazionale, rischia di peggiorare ulteriormente, a causa dell'intenzione del presidente del Kyrgyzstan, Kurmanbek Bakiyev, di chiudere l’accesso alla base aerea di Manas, alle porte della capitale Biškek. Con Uzbekistan ed Iran ostili all’America, il Pakistan ancora troppo instabile e per certi versi ambiguo ed il rifiuto da parte del Tajikistan di concedere l’uso dell aeroporto di Dushanbe per il traffico militare, Manas rappresenta un punto focale della strategia USA per l’Afghanistan, pagato profumatamente: dall'inizio dell'offensiva in Afghanistan, gli Stati Uniti hanno infatti versato al Kyrgyzstan 150 milioni di dollari all'anno in aiuti umanitari. Aiuti che, denuncia il giornalista pakistano Ahmed Rashid, sono andati ad ingrossare le tasche della classe dirigente kyrgyza, senza portare effettivi miglioramenti nella qualità della vita della popolazione.

Si può parlare di una vittoria diplomatica per Mosca, decisa a riaffermare il controllo sulle Repubbliche che una volta costituivano l'Unione Sovietica, che ha comprato la fedeltà di Bakiyev con un pacchetto di aiuti ed investimenti da 2 miliardi di dollari, ma per l'America e i suoi alleati è un duro colpo, giunto pressoché all'indomani dell'annuncio da parte di Obama sul raddoppio delle truppe di stanza in Afghanistan, necessario per procedere alla ricostruzione del Paese e alla repressione della controffensiva talebana, giunta ormai alle porte della capitale Kabul.

Negletta per anni dall’amministrazione Bush, la questione della ricostruzione nazionale in Afghanistan ha assunto la dovuta, fondamentale importanza con l’avvento alla Casa Bianca di Barack Obama: è impensabile che si possa raggiungere una stabilizzazione della situazione geopolitica di tutta la regione senza prima aver reso stabile e sicuro l'Afghanistan, e in questo caso con "regione" si intende tutta l'Asia del Sud, India compresa. Ricostruire l'Afghanistan potrebbe innanzitutto dimostrare al mondo arabo che l'approccio occidentale è radicalmente cambiato rispetto alla politica del "gettare la pietra e nascondere la mano" di George W. Bush ed esercitare una forte pressione sui gruppi talebani ed estremisti, tra cui al-Qaeda, che hanno trovato rifugio nelle terre di nessuno dell'Hindu Kush e nelle Aree Tribali ad Amministrazione Federale del Pakistan.

Sulle montagne dell'Hindu Kush si gioca il destino dell'Asia del Sud: un Afghanistan sicuro potrebbe significare in un prossimo futuro anche un Pakistan sicuro e la ripresa a pieno regime del dialogo tra Pakistan e India sulla questione del Kashmir, bruscamente interrotto dopo la carneficina di Mumbai del novembre scorso, in cui il ruolo dei gruppi estremisti islamici una volta appoggiati dall'Inter-Services Intelligence, i potenti servizi segreti pakistani, a oggi non è ancora stato del tutto chiarito. In una sorta di "effetto domino" della democrazia, un governo rappresentativo effettivamente funzionante in quello che una volta era il baluardo della repressione estremista potrebbe rappresentare la chiave di volta per un'Asia del Sud più stabile e contrastare l'effetto velenoso della predicazione pro-talebana nelle madrasse sparse per tutta la regione, dall'Uzbekistan al Pakistan.

Si tratta di un compito assai arduo, che sicuramente avrà un alto prezzo sia in termini economici che di vite umane, ma la posta in gioco è estremamente alta e se la perdita di Manas si dovesse concretizzare e a nulla dovessero valere gli sforzi diplomatici di queste ore, sarebbe un duro colpo ad un processo potenzialmente capace di cambiare il destino di quasi un miliardo e mezzo di persone.