venerdì 13 febbraio 2009

Abbaiare all'albero sbagliato

Evidentemente l'entusiasmo che ha attraversato tutto il mondo con l'avvento alla Casa Bianca di Barack Obama non ha colpito le alte sfere della politica indiana, per lo meno sotto uno degli aspetti più spinosi: la questione del Kashmir. Come già il precedente Presidente democratico, Bill Clinton, che nel 2000, in occasione di una visita nell'Asia del Sud, aveva definito il Kashmir come "il posto più pericoloso al mondo", anche Obama ha indicato la mai risolta disputa territoriale tra India e Pakistan quale uno dei punti focali per raggiungere la stabilità nell'intera regione.

Nei giorni scorsi si è assistito a quello che il Washington Post ha definito come un diplomatic coup, un "golpe diplomatico", ossia la cancellazione dietro pressioni indiane della questione del Kashmir dall'agenda di Richard "Bulldozer" Holbrooke, l'inviato speciale della nuova amministrazione USA in Pakistan e Afghanistan, già artefice degli accordi di Dayton che posero fine alla guerra in Bosnia-Erzegovina. Certi ambienti indiani non hanno decisamente gradito quella che ai loro occhi appare come un'ingerenza USA su questioni prettamente di politica interna, come ha rimarcato il National Security Adviser M. K. Narayanan in un'intervista concessa al periodico Outlook India, a cui si deve l'espressione che dà il titolo a questo post. Secondo quanto stabilito dallo Shimla Agreement del 1972, firmato l'anno successivo alla guerra che determinò l'indipendenza del Bangladesh e la sconfitta del Pakistan, le due Nazioni sarebbero tenute infatti a risolvere unicamente tra di loro le controversie territoriali, senza interventi esterni. Le obiezioni alla condotta indiana sulla questione, basata su un documento che per prima violò nel 1984 con l'occupazione del ghiacciaio del Siachen, approfittando di una definizione approssimativa dei confini nello Shimla Agreement, sono molte, soprattutto dal Pakistan, che ha sempre appoggiato un intervento mediatorio USA nella questione. L'India pare però su questo punto irremovibile: già le iniziative di Bill Clinton nel 2000 suscitarono eguali reazioni dalla "nomenklatura" indiana.

La vera paura dell'India potrebbe risiedere nella possibilità che una mediazione USA possa riportare in auge quanto stabilito nella Risoluzione n. 47 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (pdf), per cui il destino del Kashmir avrebbe dovuto essere deciso da un referendum, con cui la popolazione avrebbe potuto scegliere tra India, Pakistan o, come terza opzione, la creazione di un Kashmir indipendente. L'odierno Stato indiano del Jammu & Kashmir, in cui il 66% della popolazione professa l'Islam, si compone di tre distinte realtà territoriali: il Kashmir, con una popolazione al 97% musulmana; il Jammu a maggioranza Hindu (65%); il Ladakh, dove predominano con il 46% circa ciascuna le confessioni musulmana e buddista. Non è forse troppo azzardato ipotizzare che qualunque modalità di voto, statale o territoriale, significherebbe una sconfitta per l'India nel Kashmir, che nella migliore delle ipotesi potrebbe mantenere il controllo sul Jammu ed ottenere una seppur risicata vittoria in Ladakh, sebbene le ultime elezioni tenutesi alla fine del 2008 abbiano visto la vittoria del Jammu & Kashmir National Conference, partito dichiaratamente pro-indiano e alleato dell'Indian National Congress.

A ripercorrere la travagliata storia del Kashmir dal 1947 ad oggi, una mediazione internazionale appare come l'unica via percorribile per una soluzione di un conflitto che ha già causato migliaia di morti e portato le due Nazioni sull'orlo di una guerra nucleare, ma il dietro-front della diplomazia USA sul tema dimostra come ormai non si possa più non tenere conto, sullo scacchiere internazionale, dell'India.

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