mercoledì 4 maggio 2011

Di nuovo sul terrorismo (e di nuovo sul Pakistan)

Nessuno sembra essere, a ragione o a torto, particolarmente sorpreso dalla notizia che Bin Laden fosse nascosto in Pakistan, precisamente ad Abbottabad, una città a due ore di macchina e cinquanta chilometri a nord della capitale Islamabad (grazie Luca Sofri) e dal conseguente imbarazzo delle autorità dell’alleato forse più ambiguo degli Stati Uniti. L’ambiguità del Pakistan deriva dal fatto che, almeno così appare, vi siano nella Repubblica Islamica due governi: il primo, ufficiale, guidato da Azif Ali Zardari, il secondo, ufficioso ma più potente, guidato da Ahmed Shujaa Pasha, il direttore dell’Inter-Service Intelligence, i servizi segreti.

È risaputa la simpatia di diversi ambienti dell’ISI nei confronti dei talebani, che contribuirono ad addestrare durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan, di Al-Qaeda e di altri gruppi terroristici, quali il Lashkar-e-Taiba ritenuto responsabile degli attacchi a Mumbai del novembre 2008, spesso appoggiati in funzione anti-indiana. Il Generale Musharraf, Capo di Stato (il termine più corretto sarebbe probabilmente dittatore) del Pakistan dal 1999 al 2008, nel 2007 tentò, in uno sforzo volto ad apparire come il “migliore amico” degli Stati Uniti, di epurare l’ISI dagli elementi giudicati più compromessi con i terroristi, ma, soprattutto dalla gestione dell’affaire Bin Laden, emerge come in realtà i collegamenti tra i “servizi segreti deviati” pakistani e Al-Qaeda siano ancora forti. Difficile infatti credere che nessuno, all’interno dell’intelligence di Islamabad, sapesse dell’attuale ubicazione dello sceicco saudita, soprattutto considerato il livello di penetrazione dell’Agenzia all’interno della società pakistana, con metodi che ricordano quelli adottati dalla Stasi nella Germania dell’Est (con cui per altro pare l’ISI avesse lungamente collaborato) e fanno pertanto amaramente sorridere affermazioni come “Lo avremmo catturato se avessimo saputo dove si nascondeva”.

La risposta a domande sul perché gli Stati Uniti abbiano per anni “chiuso un occhio” su questa situazione e, in generale, sul Pakistan è probabilmente da ricercarsi in Cina. Storicamente alleata del Pakistan, la Repubblica Popolare cerca da anni di aumentare la propria sfera di influenza in Asia Centrale e nel Mare Arabico sfruttando il Pakistan come base, come dimostrano gli ingenti aiuti militari ed economici, tra i quali i mastodontici investimenti per lo sviluppo del porto di Gwadar. Il rischio di andare contro la Cina sicuramente ha sinora fermato un intervento diretto degli Stati Uniti, che hanno invece cercato di riavvicinare a sé il Pakistan con la stessa tecnica di aiuti economici e militari: dal 2003 infatti gli USA avrebbero trasferito in Pakistan oltre venti miliardi di dollari.

Se Bin Laden fosse stato scovato in uno dei villaggi delle aree più remote del Paese a ridosso del confine con l’Afghanistan, probabilmente (e sottolineo, probabilmente) oggi la “gaffe” dell’ISI sull’ubicazione del leader di Al-Qaeda apparirebbe come più verosimile, ma il fatto che tutto sia successo così vicino ad Islamabad non può che gettare ombre sul ruolo del Governo pakistano (a voi decidere quale dei due, tra quelli elencati all’inizio dell’articolo) nell’affaire Bin Laden e, più in generale, sulle vicende dell’Asia Centrale, dove ancor’oggi come un secolo fa, sebbene siano cambiati i giocatori, si gioca il Great Game.

sabato 11 dicembre 2010

Per ripicca

Tra il 2 e il 6 dicembre ho avuto occasione di collassare (mi sembra un termine più azzeccato di "dormire") ogni sera in una stanza dell'albergo Taj di Chandigarh, appartenente alla catena di alberghi di proprietà del gruppo Tata di cui fa parte anche il Taj Mahal Palace & Resort, tristemente balzato agli onori della cronaca in tutto il mondo nel novembre 2008 come uno dei bersagli dei tragici eventi di Mumbai. Non è mia intenzione generare invidie con questo post: la mia permanenza in quell'albergo mi ha fornito lo spunto per raccontare una storia breve e abbastanza curiosa, che ha per protagonisti una città, Bombay (come all'epoca veniva chiamata Mumbai), un albergo, il Watson's Hotel, e un uomo, J.N. Tata.

Vuole la "leggenda" che, una sera all'inizio del secolo scorso, il Watson's Hotel, all'epoca uno dei più lussuosi alberghi della città, rifiutasse l'ingresso a Jamsetji Tata, fondatore dell'omonima dinastia industriale e già all'epoca uno dei principali uomini d'affari del Paese, poiché l'albergo era "riservato ai bianchi". Adirato per questo rifiuto, Tata decise di costruire un albergo che superasse in bellezza e comfort qualsiasi altra struttura dell'epoca e che fosse aperto a tutti, senza distinzione di razza (termine obbrobrioso, ma molto in voga all'epoca). Il Taj Mahal, il cui nome fu scelto come richiamo alla bellezza e all'opulenza del mausoleo di Mumtaz Mahal, moglie prediletta dell'imperatore Moghul Shah Jahan, ad Agra, aprì i battenti il 16 dicembre 1903.

Sebbene molti storici oggigiorno contestino la veridicità di questo racconto, adducendo come ragione che Tata non fosse un uomo vendicativo, mi piace pensare che in uno slancio d'orgoglio un indiano, osò sfidare e battere gli inglesi, ribadendo il profondo senso dell'ospitalità della sua terra natale; la stessa ospitalità che secoli prima permise ai suoi antenati di trovare rifugio dalla Persia assoggettata all'Islam.

Cronache dal Nordest - Prologo

Un po' di storia

Bisogna appellarsi alla travagliata storia del subcontinente indiano per spiegare come oggi gli stati di Arunachal Pradesh, Assam, Manipur, Meghalaya, Mizoram, Nagaland e Tripura possano fare parte della federazione Indiana. Uniti oggi al resto dell'India da un "corridoio" che passa a Nord del Bangladesh, questi Stati fecero un tempo parte dell'Impero Britannico: con l'indipendenza dell'India, la Partition e la creazione del Pakistan orientale (l'odierno Bangladesh) nel 1947, i territori noti in epoca imperiale come Eastern Bengal and Assam vennero spartiti, lasciando all'India i territori di confine con la neonata Repubblica di Birmania, assieme ai protettorati indipendenti di Tripura e Manipur.


Con la fine del Raj britannico, la situazione della regione non era destinata a migliorare: nel 1962, le dispute territoriali tra India e Cina lungo il confine dell'allora Northeast Frontier Agency sfociarono in un conflitto armato, che vide la vittoria della Cina. Ancora oggi, a distanza di quasi cinquant'anni, lo Stato indiano dell'Arunachal Pradesh (in cinese Zangnan) è rivendicato dalla Repubblica Popolare ed è un tema ricorrente ogni volta che i governi indiano e cinese si incontrano per colloqui ufficiali. Da allora, come se non bastasse, un sempre maggior numero di gruppi insurrezionalisti è sorto nella regione, rivendicando maggiori autonomie, quando non addirittura l'indipendenza. Un rapido giro su Wikipedia permette di identificare ben sedici sigle collegate a gruppi armati operanti nella regione, ognuno mirante all'autonomia o all'indipendenza di un determinato Stato o di una specifica regione.

Un po' di etnologia e antropologia culturale

Il retaggio culturale delle popolazioni del Nordest dell'India è totalmente slegato da quello del resto della nazione, a cominciare dalla lingua: se infatti la maggior parte delle lingue indiane può essere inclusa in due grandi gruppi, ossia quello delle lingue indo-ariane a nord e quello delle dravidiche a sud, le lingue originarie della zona appartengono al gruppo delle lingue tibeto-birmane. All'interno di questo gruppo, è poi possibile identificare decine di lingue diverse, frutto della frammentarietà della società locale, in particolar modo presso il gruppo etnico dei Naga, localizzato nella parte più orientale della regione.

I Naga rappresentano forse la popolazione più particolare, tra quelle che abitano il Nordest dell'India: localizzate principalmente negli Stati di Assam, Arunachal Pradesh, Manipur e Nagaland, con propaggini fino nell'odierno Myanmar, le tribù facenti parte della Confederazione dei Naga (tra le quali Wikipedia - sempre lei - cita Anal, Angami, Ao, Chakhesang, Chang, Khiamniungan, Konyak, Lotha, Mao, Maram, Pochury, Phom, Poumai, Rengma, Sangtam, Sema, Tangkhul (Wung), Yimchunger e Zeliang - che ho riportato per far capire dai nomi l'affinità con le culture tibetane e birmane) hanno mantenuto nel corso dei secoli usanze e stili di vita che risalgono alla notte dei tempi, compresa la tradizione, oggi per fortuna abbandonata, della caccia alle teste. Ancora oggi, le tribù si sforzano, nonostante l'avanzata dell'occidente anche in zone così remote, di mantenere vive le proprie tradizioni, i propri balli e le proprie celebrazioni tribali.

Con la notevole eccezione degli Assamesi e dei Meitei del Manipur, le popolazioni del Nordest non hanno mai abbracciato la fede induista, mantenendo in molti casi le loro credenze tribali, legate a culti animisti. Il Nordest rappresentò terreno fertile per le attività dei missionari, giunti nella regione in seguito all'annessione all'Impero Britannico: la stragrande maggioranza dei Naga oggi professa la fede cristiana.

All'atto pratico

Presto mi dovrò recare a Dimapur, principale polo commerciale del Nagaland, per prendere parte alla fiera North East Agri Expo. Oltre a stare attento a non risvegliare nei Naga l'antica abitudine per quanto concerne le teste (in particolar modo la mia), questo ha comportato una serie di lungaggini burocratiche legate all'ottenimento di un permesso speciale, necessario per ogni straniero che intende recarsi nel Nagaland.

Giusto ieri ho ricevuto il Protected Area Permit - Registration NO.CON-3/PAP/12/2009 Under Para 3 of the Protected Areas Order 1958 (ah, la burocrazia indiana), quindi i fidati lettori del mio blog, ossia al momento - credo - mia madre ed Anecoico, potranno deliziarsi con le mie Cronache dal Nordest, sempre sperando che la mia chiavetta internet funzioni da quelle bande.