giovedì 29 gennaio 2009

Viaggiare in India: Varanasi

L'offerta di "Fare l'indiano" si amplia ulteriormente, anche se non se ne sentiva il bisogno, grazie alla nuova rubrica "Viaggi": non voglio certo mettermi a fare concorrenza alla Lonely Planet, ma attenermi più al concetto di "viaggio sentimentale" come lo aveva indicato Laurence Sterne.

C'è qualcosa di forse incomprensibile per noi occidentali, abituati da sempre a pensare in termini razionali, in Varanasi, la città santa per antonomasia dell'Induismo. Eppure il primo impatto, arrivando dall'aeroporto è quello di una tipica città dell'India e, in particolar modo, dell'Uttar Pradesh: il traffico caotico, esasperato da una rete viaria non adatta al numero di veicoli; l'approssimazione nella realizzazione degli edifici; l'odore acre dei rifiuti. Come già a Pushkar e, in generale, in tutte le città sante dell'India, si osserva una dieta strettamente vegetariana ed è proibita la vendita e somministrazione di bevande alcoliche. Un piccolo prezzo da pagare, paragonato a quello che si riesce a vedere e ad imparare da questo posto.

Una specie di mantra che si impara per le strade di Varanasi (o Benares, Banaras o altre dizioni che si possono trovare indistintamente) e che un genio ha avuto l'idea di mettere su maglietta è questo: No boat, no hash, no silk, no rickshaw, no hotel, no restaurant, no money... "Grazie" al continuo afflusso di turisti da tutto il mondo, i procacciatori d'affari sono più insistenti che altrove, col risultato che bisogna essere molto calmi e, soprattutto, avere già una certa esperienza dell'India per non cadere in uno stato simile al protagonista di "Un giorno di ordinaria follia".

Ma Kashi, come veniva chiamata anticamente, non è questo: è i suoi ghat, dove milioni di pellegrini ogni anno si bagnano in Ganga, la Grande Madre; è i suoi innumerevoli templi, segno di una devozione incrollabile nell'ausilio degli dei; è la schiera di sadhu, pellegrini, asceti e semplici devoti che in essa testimoniano la forza delle convinzioni dell'Induismo.

Per capire il significato di questa città e la straordinaria valenza che essa ha per gli Induisti, devo fare una breve digressione. Come molti sanno, l'Induismo prevede per ogni anima un ciclo di reincarnazioni, detto samsara, che deve sottostare alle leggi del karma: salvo alcuni periodi passati in una specie di Paradiso, dove, spiega una bellissima immagine del Mahabharata, le anime sedute in una platea ascoltano il dio Brahma svelare gli enigmi del creato, ognuno di noi è costretto a tornare sulla Terra, per cercare di migliorare il proprio karma e liberarsi dal samsara. Esiste una via più breve per abbandonare questo ciclo di morte e rinascita, ossia morire a Varanasi e far sì che il proprio rito funebre si svolga su uno dei ghat.

A Varanasi si mischiano la gioia e il dolore, la vita e la morte, la devozione e l'indifferenza, la forza e la paura. Una miriade di rituali antichissimi, come testimonia il persistente uso del Sanscrito nella celebrazione, viene ogni giorno attuate sulle rive della Grande Madre. Uno dei più suggestivi è quello che si svolge al mattino, per salutare la nascita del Sole, da cui il nome di Surya Namaskaar: l'ho potuto vedere di sfuggita, dalla finestra della mia camera d'albergo, ancora parecchio assonnato, ma ho in mente l'immagine dei devoti rivolti verso il Sole a dargli ancora una volta il benvenuto, come da migliaia di anni.

Un discorso a parte lo merita la cerimonia del funerale, a cui per tradizione possono prendere parte solo gli uomini. Innanzitutto mi è stato spiegato che la cremazione non è per tutti: i bambini, le donne incinte e chi è morto in circostanze particolari (ad esempio ucciso dal morso di un serpente), ritenuti particolarmente puri, non vengono cremati, ma ad essi viene legata una pietra al collo e sono gettati direttamente nella Ganga. Per tutti gli altri, il rituale prevede la cremazione. Dopo essere stato lavato con le acque del Gange, il defunto viene coperto con legno di sandalo, per attenuare gli odori, e di banyan, un albero ritenuto sacro: è particolarmente impressionante vedere le enormi cataste di legna. La pira viene poi accesa tramite una fascina, il cui fuoco è stato acceso presso il tempio di Shiva che sovrasta uno dei ghat, che si dice essere alimentato da migliaia di anni senza interruzione. Il fuoco viene poi alimentato e mantenuto per ore grazie al ghi, un burro chiarificato che causa un fumo particolarmente denso. Quando il corpo, dopo ore, è totalmente incenerito, le ceneri vengono raccolte e sparse nel fiume. È quì che si mischiano vari sentimenti nei partecipanti, che hanno sì perso il loro caro, ma averlo perso a Varanasi significa che è libero dal samsara: la sua anima ha finito di essere tormentata dal ciclo delle reincarnazioni è può finalmente annullarsi.

Particolare valore hanno degli edifici fatiscenti posti sulle rive del Gange: sono ospizi, a volte gestiti addirittura dai vari governi dello Stato Indiano, dove gli anziani con pochi mezzi economici possono ritirarsi ed aspettare la fine in pace ed in meditazione. Vicino ad uno dei ghat, delle vecchiette raccolgono donazioni per mandare avanti questi ospizi e per comprare i numerosi chili di legna che servono al rituale funebre: una di queste, che dicono avere 107 anni (!), mi ha anche benedetto a fronte di una piccola donazione. Spero che il mio contributo sia servito e che sia davvero stato utilizzato per la causa che mi è stata detta: se quei soldi sono stati spesi per fare felice qualcuno, a prescindere dal fatto che le sue convinzioni siano vere o false, ben venga.

Un'altra esperienza unica è girare per i vicoli della città vecchia, estremamente decadenti, ma dove ad ogni angolo si può trovare qualcosa che colpisce l'occhio, sia esso un tempietto finemente costruito nascosto dai palazzi, una moschea, che simboleggia la grande tolleranza religiosa degli Indiani, una casa riccamente decorata di fregi, oppure un bel cortile. Perdersi per i suoi vicoli (e perdersi è automatico) può rivelarsi un modo estremamente affascinante di trascorrere un pomeriggio a Varanasi.

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